Tra le recite d’opera hanno avuto luogo serate con rarità verdiane e grandi interpreti, dalle voci sovrane di Kunde, Pertusi e Pratt alla favolosa bacchetta di Bignamini
di Francesco Lora
UN MESE FITTO DI SPETTACOLI ed esiti posti agli estremi: al Festival Verdi del Teatro Regio di Parma, appena concluso, tutti e tre gli allestimenti operistici hanno lasciato un segno flebile, da un Otello inaugurale nato sotto maligna stella a un Rigoletto fatto con i giovani e rimasto senza alcuna pretesa, passando per un Corsaro dove il migliore era un tenore sostituto, Bruno Ribeiro, catapultato in scena all’ultimo momento. Nondimeno, in ottobre il festival parmigiano ha dettato legge in fatto di musica, soprattutto attraverso un ricco novero di concerti, sorta di summa della lettura verdiana dove manchi Riccardo Muti. Si è già riferito, in queste pagine, della memorabile serata beethoveniana e verdiana con Antonio Pappano alla testa dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Ma le vie della grande interpretazione, al Regio, si sono moltiplicate nei giorni circostanti.
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Ciò a partire da un recital tutto verdiano, il 10 ottobre, con la cordiale pianista Beatrice Benzi impegnata non solo nell’accompagnamento del canto, ma anche nelle rarità solistiche una Romanza senza parole e di un Valzer in Fa maggiore. Due le voci. La prima era quella tenorile di Gregory Kunde, pian piano viepiù sfocata e fibrosa, ma veicolata da una musicalità forbitissima e da una generosità incandescente, prestata ai brani maggiori della Luisa Miller, della Forza del destino, della Traviata, del Trovatore e dell’Otello. La seconda era quella baritonale di Vittorio Vitelli, considerevole per gusto, smalto e tecnica, davvero degna di miglior gratificazione nel panorama lirico odierno, prestata a sua volta ai brani maggiori dell’Attila, del Macbeth, dell’Ernani e del Rigoletto, e pronta a duettare in quelli, ancora, della Forza del destino e dell’Otello.
Nove giorni dopo il formidabile concerto di Pappano, il 27 ottobre un altro ha conteso e fors’anche tolto quel primato. È quel che accade a far salire sul podio della Filarmonica Arturo Toscanini, e con essa il Coro del Teatro Regio, quello che con Michele Mariotti è l’altro astro nascente della direzione all’italiana: Jader Bignamini ha nel complesso minor attitudine al lavoro col cantante, ma vanta un controllo tecnico dell’orchestra da fuoriclasse; legge i Ballabili dell’Otello e del Macbeth, nonché la Sinfonia del Nabucco, senza negare loro uno sfarzo sinfonico e un cesello timbrico degni di Berlioz; consegna agli annali il più fiammante e tremendo attacco dell’autodafé – Don Carlos in versione originale francese – mai ascoltato da chi scrive in tanti anni di militanza melomaniaca; sa muoversi con raggiante naturalezza persino nel pompier sconfinato e bizzarro dell’Inno delle nazioni.
Il programma privilegia dunque il Verdi raro delle creazioni, dei rifacimenti o delle riprese parigine, ma anche il cedimento londinese al pezzo d’occasione e il recupero di una pagina dalla Forza del destino pietroburghese del 1862 («Qual sangue sparsi»). Come l’Inno delle nazioni, a intonarla è il tenore Walter Fraccaro: canto tutto a base di squillo, spavalderia e risonanza, fino all’impeto che rende paonazzo il viso e senza tempo perso in ripiegamenti intimi. D’altra pasta è Michele Pertusi, gran signore dei bassi, fraseggiatore sempre erudito, sopraffino, sterminato di risorse retoriche e conoscenze tecniche, personaggio finito sia nella scena del vilain Roger (Jérusalem, atto I), sia in quella del dolente Philippe II (Don Carlos, atto IV). Bis commisurato alla serata immensa: l’intero quadro II dell’atto I di Aida, Fraccaro tonante e schietto in Radames, Pertusi inedito e soggiogante in Ramfis.
Singolare il programma dell’ultimo concerto, il 30 ottobre: un recital del rampante soprano Jessica Pratt, tutto dedicato all’opera italiana dei primi decenni dell’Ottocento, passando da Donizetti (La figlia del reggimento, Linda di Chamounix e Lucia di Lammermoor) a Rossini (Semiramide), Bellini (Beatrice di Tenda e I Puritani), Mercadante (Orazi e Curiazi) e Meyerbeer (Il Crociato in Egitto). Verdi, assente, arriva solo con l’encore: una scena finale dell’atto I della Traviata che sintetizza lo strapotere belcantistico della Pratt; vale a dire: disinvoltura nell’affrontare, una dopo l’altra e integralmente, nove scene d’opera da far tremare i polsi; e poi: perfezione di pronuncia e porgere all’italiana, note sopracute sfolgoranti, trillo granito e prolungato a piacere, timbro con screziature perlacee, agilità di forza un poco impensierita ma coloratura di grazia liquida come non mai. La gloria del canto non è finita.
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