È stato presentato a Londra l’ultimo lavoro del compositore austriaco. Il libretto di Jon Fosse ispira la regìa di Graham Vick, una dimensione irreale in cui il senso del tempo diventa incerto e la voce illumina i personaggi
di Gianluigi Mattietti foto © Clive Barda
È ANDATA IN SCENA A LONDRA, al Covent Garden, la nuova, attesissima opera di Georg Friedrich Haas, Morgen und Abend (mattino e sera), commissionata dalla Royal Opera House e dalla Deutsche Oper di Berlino (dove andrà in scena nel 2016), col sostegno della Fondazione Siemens. Opera originalissima, ma al tempo stesso opera in senso stretto, perché toccava le emozioni più profonde, i sentimenti, le paure di fronte al mistero della vita e della morte. Il compositore austriaco si è rivolto ancora una volta a Jon Fosse (da cui aveva già tratto il libretto per l’opera Melancholia) che ha adattato il suo omonimo romanzo (Morgon og Kveld, pubblicato nel 2000). È la storia di un uomo, il pescatore Johannes, colta in due momenti estremi: quello della nascita, attesa con apprensione dal padre Olai, anch’egli pescatore, e quello della morte, descritta in una dimensione metafisica, nella quale egli rivede le persone a lui care, ma già morte, la moglie Erna, la figlia Signe, l’amico Peter.
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Il teatro d’opera si è spesso confrontato con il tema della morte, ma è sempre avvenuto dal punto di vista dei vivi. Qui avveniva il contrario (come nell’opera After Life di Michel Van der Aa), perché Morgen und Abend metteva in scena personaggi già morti che ripercorrevano come flashback momenti della loro vita. Questo libretto, nello stile tipico di Fosse, era giocato su ripetizioni incantatorie, con un linguaggio colloquiale e semplice, che assomigliava però più alla quotidianità del pensare che a quella del parlare, e che generava una dimensione sospesa, impalpabile, vagamente angosciante. Haas ha fatto tesoro della sua lunga esperienza di operista (Adolf Wölfli nel 1981, Nacht del 1998, Die schöne Wunde del 2003, Melancholia del 2008, Bluthaus del 2011, Thomas del 2013), creando una partitura di grande seduzione, piena di mistero, che ha irretito il pubblico londinese, esploso alla fine in applausi infiniti. La drammaturgìa, meno narrativa rispetto a Thomas e a Bluthaus, più vicina alla dimensione onirica di Melancholia, era imperniata sulle sensazioni, poetiche e musicali, legate al momento del trapasso: «Immagina di ascoltare la colonna sonora di un film, ma senza vedere le immagini, segui solo le emozioni di questa colonna sonora. Allo stesso modo ho cercato di creare un linguaggio musicale basato solo sulla percezione del suono. Morgen una Abend è un’opera sulla vita di una persona e sul passaggio dalla vita alla morte. Sappiamo di persone che sono state vicine a questo momento, e tutti parlano di una luce fortissima. Io ho trasformato questa luce nella mia nuova opera».
L’opera era divisa in due parti nettamente distinte. La prima era un monologo parlato di quaranta minuti (troppo lungo), nel quale Olai attendeva, in ansia, la nascita del figlio, annunciata alla fine dall’ingresso in scena dell’ostetrica – questo soliloquio, tutto interiore, era interpretato da Klaus Maria Brandauer, con una recitazione a dire il vero un po’ pesante, sempre sopra le righe. Il resto dell’opera si basava sui dialoghi tra Johannes, da vecchio, con la figlia, e con le altre persone a lui care, e già scomparse, sui suoi sentimenti di nostalgia, sulla visione spontanea di un aldilà senza sofferenze. Haas ha usato una grande orchestra molto finemente, con fitte trame strumentali (non microtonali), con un massiccio dispiegamento di fiati, col gioco antifonale, e violento, di due grancasse che accompagnavano il monologo iniziale dai due palchetti ai lati del proscenio, con il continuo trascolorare delle superfici timbriche, con i lenti glissati e le scale infinite (che ricordavano quelle di Escher), con le luminescenze cristalline, con le turbolenze dei fiati gravi che sembravano evocare la voce dell’Oceano, con le fasce armoniche che apparivano come flussi di pensiero (di Olai prima, di Johannes dopo), con i cluster del coro mistico dietro le quinte.
Il risultato era un variegato ordito di armonie spettrali (ben diretto da uno specialista come Michael Boder), che procedeva per ondate, e che alla fine, dopo la morte di Johannes, si cristallizzava in filigrane trasparenti e fantasmatiche. La scrittura vocale, scaturita dalle stesse strutture spettrali, appariva melodiosa, morbida, capace di veicolare tutta l’espressività che mancava nel testo. E i personaggi, che pure in scena apparivano come figure spettrali, acquistavano calore proprio grazie alla voce. La vocalità assumeva a tratti forme arcaiche, come di antichi discanti, diventava esplosione di gioia nel canto dell’ostetrica che annunciava la nascita di Johannes, acquisiva un profilo tormentato nel canto di Johannes (che ricorreva anche allo Sprechgesang) quando cominciava a porsi dubbi sull’esistenza delle persone che lo circondavano. Questi caratteri espressivi erano resi benissimo dai quattro cantanti: il baritono Christoph Pohl interpretava uno Johannes intenso e angosciato, il contralto Helena Rasker era una Erna molto sensuale, il tenore Will Hartmann un umanissimo Peter, il soprano Sarah Wegener sfoggiava un’emissione limpida ed elegante, nel doppio ruolo dell’ostetrica e di Signe.
La regia di Graham Vick giocava con finezza su questa dimensione soprannaturale. Le scene e i costumi (Richard Hudson) erano di un color grigio mastice che dava subito l’idea di un mondo privo di vita. I pochi oggetti sulla scena (delle sedie, un letto, una barca, una porta, un ombrello, un carrello) sembravano apparire per incanto, dal nulla, e stagliarsi sul fondale nero come se fluttuassero nell’aria. Ad animare personaggi ed oggetti c’erano solo le magnifiche luci di Giuseppe di Iorio, con sfumature cromatiche e chiaroscuri, cambi di tonalità ad ogni scena, scarti luminosi che seguivano la musica. Tutto contribuiva a creare la dimensione irreale e misteriosa del trapasso, la percezione alterata della realtà, la prospettiva falsata degli scherzi della memoria. La proiezione del testo sul fondale, parole in movimento che ondeggiavano lievemente quando veniva evocato il mare, contribuiva a fare di questo spettacolo una vera e propria opera d’arte totale, una forma rappresentativa unitaria, avvolgente, ipnotica, che faceva perdere il senso del tempo. Ed era una grande emozione, nella scena finale, la luce accecante, rivolta prima sui personaggi, poi verso il pubblico, che accompagnava il momento in cui Peter rivelava a Johannes che erano ormai nel mondo dei morti, e lo traghettava sulla sua barca, accompagnato da una musica stridente, acida, un sibilo acutissimo, sottolineato da un lungo scampanellio.
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