L’inusuale dittico Bartók-Poulenc in una coproduzione multimediale: il fil rouge si snoda tra le proiezioni di Denis Guéguin e la regìa di Warlikowski. Esa-Pekka Salonen dirige magistralmente l’Orchestre de l’Opéra National de Paris
di Barbara Babic foto © Bernd Uhlig
UN CASTELLO E UNA STANZA – spazi di inquietudine e solitudine dove i dialoghi si fanno in realtà monologhi – sono i luoghi dell’azione e dello spirito di due opere, tanto lontane per forma e linguaggio, ma piuttosto vicine nel contenuto: Le château de Barbe-Bleue di Béla Bartók su libretto di Béla Balázs (1918) e La voix humaine su testo di Jean Cocteau e musica di Francis Poulenc (1959), un’accoppiata di certo piuttosto inusuale presentata nella suggestiva cornice di Opéra Garnier.
Rendere sulla scena queste storie di amori prigionieri ora fiabeschi ora iperrealistici, di passioni amorose che devastano e annichiliscono è la sfida del regista polacco Krzysztof Warlikowski. E ci riesce benissimo, con l’abilità di un illusionista, di un prestigiatore, proprio come quello che si vede impersonato nei panni di un draculesco Barbablù nel prologo pantomimico iniziale.
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Numerose proiezioni filmiche (curate da Denis Guéguin) fanno ricorrentemente da contrappunto all’azione sulla scena: sullo sfondo si vede ora la sala dell’Opéra Garnier in bianco e nero dove in prima fila siede Judith, ora l’immagine di un bambino con una palla di vetro con neve, ora semplicemente uno schermo in cortocircuito. Il castello è un luogo asettico e impersonale, con pochi elementi essenziali sulla scena, e le porte sono delle grandi teche di vetro con dentro alcuni oggetti, come se la vita passata fosse un museo (le belle scenografie sono di Małgorzata Szczęśniak). Si percorre spesso la via simbolica e psicanalitica: nel bambino (prima in film, poi sul palco) che è un giovane Barbablù; nelle mogli, che brillano negli abiti e nel cuore per il loro carnefice, prese da una sorta di sindrome di Stoccolma che andrà inesorabilmente a toccare anche Judith. Il basso John Relyea è spettrale, scuro, intenso nel parlato e nel canto, convincente come del resto lo è la Judith di Ekaterina Gubanova, vanitosa, capricciosa, un po’ più insicura nella sua parte attoriale. La chiave di lettura è nel gioco degli specchi, nel vedere la vicenda come una storia contraria a quella della Bella e della Bestia: lo si intuisce inizialmente in un fotogramma e lo si comprende del tutto alla fine, quando sullo schermo compare uno spezzone dell’omonimo film di Cocteau (La Belle et la Bête, 1946) a fare da trait d’union tra le due opere.
Senza soluzione di continuità si passa così a La voix humaine, “concerto pour voix de femme et orchestre” come l’aveva definito il compositore stesso. Dal fondo della scena, lei avanza con passo incerto sui tacchi vertiginosi, il viso con il trucco colato, una pistola in mano, ennesima vittima di un Barbablù. È spesso a terra, su un bel pavimento dal disegno geometrico che viene ripreso e proiettato da una telecamera dall’alto, mentre cerca di arrampicarsi e aggrapparsi a quel poco che le rimane, nel delirio di volersi togliere la vita e di uccidere il suo ex, che compare in scena con la camicia sporca di sangue accanto a lei. Non è un dialogo al telefono, ma un monologo intensissimo che scandaglia ogni aspetto della psiche femminile. La soprano canadese Barbara Hannigan è semplicemente straordinaria: fragile, folle, carismatica, elegante, sicura nella voce e nella recitazione, in una narrazione che lascia molte questioni aperte e che la vede alla fine in piedi con la pistola alla bocca.
Esa-Pekka Salonen dirige magistralmente l’Orchestre de l’Opéra National de Paris, con un piglio deciso nella partitura bartokiana, sottolineandone la densità spettrale e il climax che lascia il pubblico in trepidazione ad ogni porta che si apre. L’orchestra si traforma così nel terzo personaggio nell’opera, e in Poulanc nell’alter ego della protagonista. Un dittico riuscitissimo, forte di una conduzione musicale d’eccellenza e di una regia ricca di spunti di riflessione, convincente nell’intessere a poco a poco e con delicatezza il fil rouge tra le due opere.
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