Le recite di dicembre vedono sostituiti in corsa i quattro interpreti principali, ma rimane il primato della storica regìa di Schenk e della prassi esecutiva viennese
di Francesco Lora foto © Michael Pöhn
POKER DI FORFAIT. C’è qualcosa che possa spaventare di più il melomane? Quello viennese, in una città con cento allestimenti operistici per anno, dove artisti di ogni caratura passano tutti a turno, prende forse le sostituzioni dei divi beniamini con maggior filosofia di quello italiano. Ma estremo è il bilancio per Der Rosenkavalier di Richard Strauss allo Staatsoper, quattro recite dal 6 al 19 dicembre scorsi, tra abbandoni da tempo annunciati e altri dell’ultimo momento.
Doveva cantare Anja Harteros, Feldmarschallin forse la più in vista dei nostri giorni, e senza dubbio quella più addentro alla cultura austro-tedesca, la più sontuosa e personale di timbro e la più giovanile e palpitante di personificazione: ha preso il suo posto Ann Petersen, soprano che macina recite wagneriane e straussiane nell’Europa settentrionale, solida di mezzi, povera di carisma, pratica di senso. Doveva cantare Peter Rose, altro interprete di riferimento planetario per la parte del Barone Ochs; ma dalla panchina è saltato su Wolfgang Bankl, il basso-baritono tuttofare dello Staatsoper, capace di cantare un’opera diversa ogni sera, non candidato a consegnare un Ochs prezioso ma abile a esprimersi in dialetto viennese e a inscenare uno spirito gradasso. Doveva cantare Rachel Frenkel, come Octavian, e in suo luogo è subentrata Stephanie Houtzeel: interprete nel complesso pallida, si fa però ammirare soprattutto nell’atto III, quando nel travestimento femminile sa essere scherzosa senza eccedere nella caricatura (non è poco: Sophie Koch, che nel mondo ha quasi l’esclusiva sulla parte, mostra proprio in ciò il tallone d’Achille). Doveva cantare Ileana Tonca come Sophie, infine, ed ecco spuntato in locandina il nome della sempre fresca, vivace, ideale Chen Reiss, sostituta del tutto all’altezza della titolare.
Il brusco e – alle somme – svantaggioso riassortimento delle prime parti non è controbilanciato dall’insieme di quelle secondarie. Potrebbe esserlo: in recite passate, nel quadro dell’atto I intorno alla toeletta della Feldmarschallin, affollato di personaggi e pittoricamente ispirato a Hogarth, è difficile distogliere l’attenzione dalle battute del Notaio se a dirle è il veterano Alfred Šramek; ma nelle recite di dicembre non si trae gran consolazione nemmeno dal biancastro – e per nulla italiano – Cantante in scena del tenore Jinxu Xiahou.
È tuttavia presto per affondare lo spettacolo. Rimane l’imprescindibile allestimento con regìa di Otto Schenk, scene di Rudolf Heinrich e costumi di Erni Kniepert, creato nel 1968 – all’epoca v’erano Leonard Bernstein, Christa Ludwig, Walter Berry, Gwyneth Jones e Reri Grist – e ora giunto alla 369ma recita di servizio. È un capolavoro di rievocazione della Vienna di Maria Teresa con attenti occhi autoctoni, ponte equilibratissimo tra l’oleografia, precedente lo scioglimento dell’impero austro-ungarico, e i tempi presenti, viepiù incapaci di cogliere nel lavoro di Hofmannsthal e Strauss la stretta adesione a un preciso quadro culturale, storicamente connotato e idealizzato. Ed è uno di quegli allestimenti incapaci di invecchiare, anche quando ripreso con prove frettolose e interpreti sostituiti: la Feldmarschallin che, spalle a tutti, tende indietro la mano verso Octavian per un bacio di rispetto, sparendo poi sulle scale fino all’ultimo spicchio d’ombra, basta in un solo gesto a fare un finale, una morale, una psicologia, una testimonianza di vita, di generazione e di ceto.
Un altro asso nella manica, per le recite qui recensite, è ai piedi del palcoscenico. Il direttore Adam Fischer e l’orchestra dello Staatsoper – qui più che mai in aroma di Wiener Philharmoniker – si presentano come un tutt’uno complice e appassionato, devoto a un traboccante suono di velluto e oro massiccio, flesso da rubato agogici trascinanti e ammiccanti, e vivificato da qualche imperitura libertà sul testo (vedi il vocalizzo di Annina nell’atto III, raddoppiato a bocca chiusa dai professori): tutto ciò costituisce ancor oggi la tradizione esecutiva del capolavoro straussiano nella sua casa naturale. Non c’è magagna che tenga: fuori dallo Staatsoper non si potrebbe dare un più autentico Rosenkavalier.