RECENSIONI • Il pianista esegue Haydn, Schubert, Mozart, Beethoven su due pianoforti diversi nello stesso concerto. Lo abbiamo ascoltato in due sedi diverse | Foto © Vico Chamla
di Luca Chierici
Secondo appuntamento di un trittico dedicato da Schiff agli ultimi lavori scritti dai grandi classici viennesi, il concerto dell’11 Gennaio per le Serate musicali di Milano si è svolto come il precedente senza il rispetto del consueto intervallo e con la presenza sul palcoscenico di due strumenti dalle caratteristiche molto differenti, un Bösendorfer e uno Steinway. Quest’ultimo ci è apparso in condizioni non molto brillanti, fatto questo che ha avvantaggiato la ricezione del timbro, del colore dello strumento viennese, del quale si ammira la disomogeneità nei tre registri principali (basso, medio, acuto) ideale ad esempio per sottolineare il gioco di molte sezioni della Sonata D 959 di Schubert, dove appunto si evidenziano i passaggi tra i registri stessi:
I criteri di scelta dei due strumenti da parte del pianista ungherese non sono sempre così manifesti. Anzi si vorrebbe quasi che egli ripetesse all’istante l’esecuzione di ogni numero del programma per mostrare quali elementi della scrittura pianistica vengono meglio evidenziati sull’uno piuttosto che sull’altro pianoforte. La scelta non è stata certo effettuata in base a considerazioni puramente cronologiche: non si capisce infatti il perché della esecuzione della Sonata n. 51 in re maggiore di Haydn (1794) sullo Steinway e la scelta del Bösendorfer per la più tarda Sonata D 959 di Schubert. Se si fosse optato per la sola presenza del pianoforte viennese il recital avrebbe avuto a nostro parere ancora più successo rispetto a quello, già straordinario, che ha premiato di nuovo la presenza continuativa di Schiff a Milano.
Il pianista ungherese si conferma come uno dei più grandi studiosi e interpreti di un repertorio molto vasto – ridurre Schiff ai Classici viennesi significa non conoscere la passione con la quale egli si è gettato nelle esecuzioni di autori come Schumann o Reger o Bartók – che egli affronta apparentemente nascondendosi dietro il velo pudìco della filologìa. In realtà Schiff non è esente da personalismi, e lo si capisce oggi ancora di più che negli anni passati ammirando un fraseggio che si è fatto più libero e quasi sempre convincente. Convincente e immerso nella musica ci è sembrato Schiff alle prese con la raramente eseguita sonata haydniana in due soli movimenti, che contiene un finale di bellezza straordinaria da lui eseguito con grande intelligenza giocando sugli equivoci di accenti “sfalsati” :
E altrettanto spontanea e appassionata è stata la sua lettura della grande Sonata in la maggiore di Schubert, da lui più volte eseguita in concerto nella nostra città (non dimentichiamo che Schiff presentò l’integrale delle sonate di Schubert per le Serate Musicali nel 1993-94, ben prima del più limitato ciclo scaligero affrontato da Barenboim due anni fa). Là dove Schiff convince di meno è in quei momenti in cui si erge a paladino di una filologìa che produce effetti talvolta nefasti sulla libertà di espressione. La lettura ultra-conservatrice della “110” di Beethoven poteva suggerire alcuni particolari interessanti per gli addetti ai lavori, ma privava di gran parte del pathos un testo che viene affrontato in maniera molto più viscerale da un Pollini, fin da un Brendel che di solito non era immune da una certa rigidità espressiva. E si ha il coraggio, oggi, di tacciare di eccessivi personalismi i grandi pianisti del passato! È più arbitrario l’abbandonarsi all’ebbrezza di un canto infinito nell’ultima pagina della fuga della 110 come facevano Serkin, Backhaus, Fischer o trattenere il discorso nel rispetto di un contrappunto arcaico di matrice bachiana come ha dimostrato di scegliere Schiff l’altra sera?
Né ci è parsa giustificabile la scelta di infarcire di abbellimenti “improvvisati” il primo movimento della Sonata K 545 (eseguita per intero nel primo appuntamento del dicembre scorso e qui richiamata in un “bis”). Erano più i passaggi inventati da Schiff che quelli scritti da Mozart, in una sonata ad uso dei discenti che è un capolavoro di essenzialità, di economia di mezzi. Resta peraltro la soddisfazione di avere ascoltato un programma di livello intrinseco neppure commentabile eseguito da uno dei più grandi pianisti della seconda metà del ’900, che da quasi trent’anni onora l’Italia e Milano della sua costante presenza.
di Attilio Piovano
Per una volta sia permesso di partire dal fondo, sì insomma dai bis, quelli concessi l’altra sera (giovedì 7 gennaio 2016) dal pianista ungherese András Schiff, al termine del secondo di due superbi recitals solistici per l’Unione Musicale, a Torino: in Conservatorio. Recitals per intero consacrati alle ultime Sonate di Haydn, Mozart, Beethoven e Schubert, gli estremi capolavori dei quattro sommi che fecero grande la scuola viennese di fine ’700 inizio ’800. E allora – dopo il trionfo dello scorso dicembre – ben quattro i bis fioccati a fine serata, dopo aver ascoltato pagine eccelse eseguite su due differenti pianoforti, un Bösendorfer dal suono vellutato e nitido al tempo stesso e un più ‘normale’ Steinway gran coda d’ordinanza dal suono più corposo, ma sempre controllato, affiancati di sbieco sul palco, come due auto alla partenza della mitica 24 ore di Le Mans (per dire una Chapparal e una Ford GT 40), quando lo spettacolo iniziava coi piloti che correvano alle auto e vi salivano aprendo le porte ad ali di gabbiano.
Schiff non corre, ma si sposta con estrema circospezione tra i due strumenti e come bis ecco innanzitutto il fuoco dell’ultimo Schubert, e dunque il primo dei Tre Klavierstücke D 946, quello in mi bemolle minore dall’affannoso incedere e dall’afflato denso di pathos e pareva di risentire Brendel; poi cambio di auto (pardon di strumento) e il Beethoven di una delle ultime Bagattelle. Quindi un’esemplare interpretazione del primo movimento della Sonata ‘facile’ K 545 di Mozart (sì bistrattata da troppi dilettanti), e allora quanta eleganza e che suono perlaceo, che scioltezza e che perizia nello sciorinare gli abbellimenti.
Ragionevolmente ci si aspettava che Schiff sarebbe rimasto alla tastiera dello strumento più leggero per chiudere con Haydn e invece no: sorpresa enorme nell’ascoltare l’aria delle sublimi e bachiane Goldberg. Taluni sono rimasti un po’ spiazzati (e magari già si crogiolavano nell’inverosimile speranza di ascoltare per intero le Variazioni Goldberg che sempre ci fanno ripensare a Glenn Gould) e invece la scelta era del tutto coerente, come a dire dietro a Haydn, a Mozart, a Beethoven ed a Schubert c’è Bach il Kantor, c’è tutto il cartesianesimo della sua polifonia, la complessità della scrittura e al tempo stesso quella (apparente) simplicitas che si sprigiona dall’aria poi variata nelle Goldberg.
Ecco veniva da pensare a tutto questo e ad altro ancora uscendo da concerto, l’altra sera, dopo aver ascoltato il Mozart della Sonata K 570 (quanta grazia specie nell’Allegretto conclusivo), il Beethoven della vetta dell’op. 110, affrontata con una naturalezza ed un equilibrio quasi neoclassici, lontani dalle fiammeggianti e dionisiache interpretazioni di altri (ma quanta misura e quanta sapienza nel dipanare la polifonia della Fuga, nel distillare la solennità da Corali del Moderato iniziale e dell’Adagio, anche se qua e là si può dissentire da un’interpretazione fin troppo, come dire, trattenuta), dopo aver ascoltato lo Haydn della londinese Sonata Hob. XVI n. 51, in soli due movimenti, in bilico tra presente e passato (e allora bene la scelta di averla suonata sul più moderno Steinway), e infine la schubertiana Sonata D 959: che se non raggiunge i vertici della D 960 è pur tuttavia un monumentum all’interiorità, specie nella disarmane serenità dell’ultimo tempo dove davvero decolla.
Ovazioni e applausi a non finire in una sala gremita all’inverosimile, al termine di una serata di altissimo livello, con un grande pianista che suona con una naturalezza ed una grazia indicibili, come se suonare pagine sì impegnative (tutte d’un fiato, senza intervallo, a propiziare la concentrazione sua e del pubblico) fosse la cosa più ovvia del mondo. Come bere un bicchiere d’acqua. Mentre dietro c’è una vita di studio, scavo, approfondimento, una cultura intera, il mondo viennese interiorizzato, quasi connaturato al proprio dna. Insomma tutto il contrario di certi virtuosi che sbaragliano ai concorsi col loro pianismo abbacinante e fatuo, facendo fischiare gli pneumatici ad ogni curva, mentre Schiff è come quei piloti che alla 24 di Le Mans pennellavano le curve giro dopo giro con ineffabile esattezza. E la differenza è a dir poco enorme.