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«Lulu» a Bolzano, in prima italiana la versione di Eberhard Kloke

di Gianluigi Mattietti
27 Gennaio 2016
in XX e XXI
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Home XX e XXI
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Il compositore e musicologo tedesco ha scritto nel 2008 una nuova versione del terzo atto incompiuto dell’opera, andato in scena per la prima volta a Copenhagen nel 2010, utilizzando solo materiali originali di Berg | Cast di ottimo livello e ben rodato. Il direttore Anthony Negus ha voluto dedicare questo spettacolo alla memoria di Pierre Boulez


di Gianluigi Mattietti foto © Benedetta Pitscheider


Il ciclo Oper.a 20.21 della Fondazione Haydn di Trento e Bolzano sta scompaginando le abitudini, un po’ soporifere, della programmazione dei Teatri d’Opera in Italia, che negli ultimi anni, per evitare rischi e fare cassa, stanno ripiegando sui soliti autori e i soliti titoli. Al Teatro Comunale di Bolzano invece, dopo Barber e Bernstein è stata la volta di Berg – e ad aprile ci saranno anche Whatever Works di Manuela Kerer e Arturo Fuentes, e Il Naso di Šostakovič (al Teatro Sociale di Trento) –, con una Lulu spettacolare e graffiante, presentata in una versione nuova per l’Italia, quella completata da Eberhard Kloke. Il terzo atto della partitura, lasciata incompiuta da Berg nel 1935, era stato infatti ricostruito e orchestrato da Friedrich Cerha nel 1979. E in quella versione l’opera era andata in scena a Parigi, e poi alla Scala, diretta da Pierre Boulez, con la storica regìa di Patrice Chéreau.

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La ricostruzione di Cerha, universalmente accolta come il suo completamento naturale, mostra una densità di scrittura straordinaria, esalta la scena di Parigi come un affresco sinfonico e corale pieno di ritorni tematici e di corrispondenze col materiale dei primi due atti. Ma proprio per questo il terzo atto, che è anche lungo, complicato, pieno di nuovi personaggi, è sempre apparso molto diverso rispetto ai primi due. Nel 2008 Eberhard Kloke, compositore e musicologo tedesco, dal 2002 collaboratore stabile della Universal Edition, ne ha curato una versione alternativa che ha semplificato e accorciato la lunga scena parigina (con varie opzioni alternative in partitura), usando solo materiali scritti da Berg, creando una trama vocale e orchestrale più trasparente e concisa, mettendo sulla scena anche un trio strumentale (pianoforte, violino e fisarmonica).

Rispetto alla densità della versione di Cerha, sembra una scena un po’ esile, quasi un eccesso opposto, ma trattata con grande musicalità, e in stile. Né cambiano molto le cose dal punto di vista drammaturgico, anzi lo sfoltimento delle parti rende più consenquenziale e incisivo il passaggio verso la catastrofe finale. Questa versione di Lulu, eseguita per la prima volta a Copenhagen nel 2010 è stata poi ripresa in una nuova produzione della Welsh National Opera, firmata da David Pountney nel 2013. Ed è questo lo spettacolo che è stato presentato a Bolzano.

La regia di Pountney enfatizzava il lato caustico e grottesco dell’opera, la ambientava in un circo variopinto, come se la vicenda narrata non fosse altro che una naturale prosecuzione del Prologo, col domatore e i suoi animali. Giocava in maniera beffarda sul tema della morte, e rappresentava una società corrotta, cinica, degenerata, senza umanità e senza possibilità di redenzione, attingendo all’immaginario espressionista, ma con lo sguardo oggettivo, anatomico di George Grosz, piuttosto che con quello tormentato a tragico di Egon Schiele. In questa Lulu non c’era spazio per il pathos, per la commozione, per l’esibizione dell’erotismo o della violenza (comune a tanti allestimenti da gusto un po’ splatter), anche la sensualità virava spesso al grottesco. Alla dimensione psicologica e di critica sociale si sostituiva una sorta di rappresentazione rituale e allegorica, a tratti anche comica.

Tutto avveniva all’interno di una struttura di metallo, cilindrica, con una scala elicoidale (le scene erano di Johan Engels), a metà tra una gabbia e lo scheletro di un tendone da circo. Un circo popolato da uomini e da animali, dove, al posto dei trapezisti, dall’alto penzolavano le vittime di Lulu, uomini issati con uncini da macellaio ed esibiti come altrettanti trofei. Anche l’erotismo perdeva ogni seduzione perché giocato su combinazioni e ingigantimenti di frammenti anatomici: Il ritratto di Lulu fatto dall’artista era una scultura postmoderna, una bambola mostruosa fatta gambe e braccia montati insieme come un folle esperimento di ingegneria genetica, o una permutazione seriale di zone del corpo femminile; nel secondo atto la scena era dominata da un talamo rosa, fatto di glutei e seni di dimensioni enormi, come un materasso di fette di carne. Spesso i movimenti erano gesti sincronizzati e buffi, alcuni personaggi si muovevano come veri e propri clown (ad esempio l’Atleta), alcune scene, anche tra le più drammatiche, sembravano uscite dalle comiche (come la scena del suicidio del Pittore).

L’unico momento veramente forte, un vero shock visivo, era quello della morte di Lulu, con il suo corpo nudo che si intravedeva dietro un vetro imbrattato di sangue. A parte il simbolismo cromatico un po’ stucchevole e l’idea, davvero infelice, di affidare le parti parlate alle voci di attori fuori scena, che rimbombavano in sala come suoni dell’aldilà, il congegno registico funzionava moto bene. Lo spettacolo era vivido, pieno di energia, con tutti i personaggi ben caratterizzati grazie anche ai bei costumi, un po’ cabaret berlinese, un po’ anni Trenta, di Marie-Jeanne Lecca, storica collaboratrice del regista. Cast di ottimo livello e ben rodato in quest’opera. Il soprano svedese Marie Arnet, nei panni della protagonista, si ammirava per la voce cristallina (anche se talvolta era soverchiata dall’orchestra e l’articolazione delle parole non era sempre nitidissima), l’agilità nelle colorature, il canto sempre espressivo, intenso, a volte corrosivo, sia nello Sprechgesang che negli sfoghi lirici (ad esempio nell’aria del terzo atto «Ich tauge nicht für diesen Beruf»).

Una Lulu scenicamente credibile, che ammaliava con le sue mise non sexy ma camaleontiche, di colori sempre diversi. Natascha Petrinsky si è dimostrata una vera specialista nei panni della contessa Geschwitz (che ha interpretato anche alla Scala nel 2010), con la sua vocalità rigogliosa, sensuale e un’emozione crescente che culminava nello straziante monologo finale («Nein, wenn sie mich heut’ in meinem Blut»). Il baritono inglese Paul Carrey Jones coglieva assai bene la parabola emotiva di Schön, dall’arroganza alla disperazione, e era alla fine il gelido giustiziere Jack the Ripper. Bernd Hofmann, inquietante Domatore e Schigolch, entrava in scena come una specie di Wotan con lancia e benda sull’occhio e ricompariva alla fine per portarsi via il cadavere di Lulu. Il tenore olandese Johnny Van Hal, dalla voce non bella, ma molto musicale, caratterizzava molto bene l’impacciato Alwa. L’intenso lirismo della partitura di Berg era messo in grande risalto dalla direzione di Anthony Negus, esperto wagneriano, che ha voluto dedicare questo spettacolo alla memoria di Pierre Boulez.

Rappresentazione del 19 gennaio 2016, Bolzano

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Tags: Anthony NegusBernd HofmannEberhard KlokeJohnny Van HalNatascha PetrinskyPaul Carrey Jones
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Gianluigi Mattietti

Gianluigi Mattietti

Docente di Storia della musica all'Università di Cagliari, autore di saggi e studi sulla musica del Novecento e contemporanea, collabora come critico musicale con le riviste Amadeus, The Classic Voice, Musica, Il Giornale della Musica, Golem informazione, Il Corriere Musicale.

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