di Luca Chierici
LA CLAUSOLA VOLUTA DALL’AUTORE e strenuamente difesa dagli eredi, secondo la quale Porgy and Bess non avrebbe potuto essere rappresentata in forma scenica completa senza la presenza di protagonisti e di un coro interamente di colore, ha sempre costituito un freno per la diffusione su larga scala di un lavoro che ha avuto un’importanza straordinaria nel contesto della musica che veleggia sul confine tra il folklore afro-americano e quella propria del teatro lirico di stampo occidentale. Al già problematico quesito attorno alla natura di molti lavori di Gershwin, che stanno tra il classico e il jazz, tra il folklore e la musica pura e che hanno fatto sì che per un certo periodo di tempo la sua produzione non sia stata considerata degna di collocarsi né su un versante né sull’altro, Porgy and Bess aggiunge appunto un ulteriore elemento di discussione perché affronta un genere, quello dell’opera lirica, che a propria volta rappresenta un unicum nel pur variegato panorama della cosiddetta musica colta.
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Il soggetto, ripreso dal romanzo Porgy pubblicato nel 1925 da Du Bose Heyward e ridotto da lui e dalla moglie Dorothy in forma di commedia, era stato messo in musica da Gershwin con la collaborazione del fratello Ira per ciò che riguardava i testi. La prima messa in scena nel 1935 a Boston inaugurava una storia di rappresentazioni spesso ospitate da teatri minori anche a causa delle clausole già ricordate. Nonostante la frequentazione tra Gershwin e Alban Berg nel 1928 e una nota dichiarazione dello stesso compositore americano, la parentela tra Porgy and Bess e il Wozzeck, che Gershwin ben conosceva, non è così scontata, in quanto la drammaturgia dell’opera berghiana è molto più calcolata e coerente nella sua spietata logica: là Marie si concede un intermezzo con il Tamburmaggiore ma è sostanzialmente fedele al proprio uomo, pure sconvolto da una presunta aberratio mentalis. Qui Bess ondeggia tra una sincera dedizione verso il fedele e protettivo Porgy, salvo andarsene all’ultimo con il primo spacciatore che le fa balenare un guizzo di vita folle in quel di New York e soprattutto le garantisce la dose quotidiana di coca. Porgy e l’ambiente tipico dello scontato buonismo dei neri d’America tutti chiesa, gospel e rythm alla fine hanno la meglio nel momento della morale che conclude il lunghissimo spettacolo, ma in fondo il personaggio di Bess – che nell’opera riveste ovviamente un significato primario e non solo dal punto di vista vocale – rimane irrisolto e lascia allo spettatore più di una perplessità.
Il Teatro alla Scala ha ancora una volta aggirato i divieti legali approntando oggi una produzione in forma semi-scenica che permette sia il più che comprensibile apporto di voci adatte all’occasione, sia lo sfruttamento della grande risorsa interna del Coro, che di colore non è ma che si è più che onorevolmente speso, con l’aiuto di Casoni, nell’affrontare una parte tutt’altro che facile. Un altro particolare non secondario di questa produzione, la terza nella cronologia del Teatro, risiedeva nella presenza-assenza di colui che avrebbe dovuto concertare e dirigere l’opera, il grande direttore austriaco Nikolaus Harnoncourt, di recente scomparso. Il ruolo degli Harnoncourt nel contesto della diffusione dell’opera di Gershwin non è secondario: era stato infatti lo zio di Nikolaus, René, emigrato nel 1933 negli Stati Uniti e divenuto amico di Gershwin, a spedire in Europa al padre di Nikolaus una copia dello spartito. Il piccolo Harnoncourt aveva quindi ascoltato il padre accompagnare al pianoforte i momenti salienti dell’opera e se ne era innamorato al punto di affrontare nel 2009 in teatro un testo che era così lontano dalle proprie specificità più attinenti in origine al campo della musica barocca. Il ruolo degli Harnoncourt è sostenuto in questa occasione dal figlio di Nikolaus, il regista Philipp, che ha messo a punto uno spettacolo assai funzionale pur nel vincolo di una rappresentazione semi-scenica.
Al successo della prima scaligera ha fortemente contribuito la presenza di una compagnia di canto omogenea e di successo fin nelle parti minori. In questo caso non si trattava solamente di possedere in maniera naturale un timbro del tutto particolare e soprattutto un corpo di voce che è tipico degli artisti di colore e che in passato tanto ha contato nel momento in cui, a vario titolo, gli stessi artisti hanno affrontato ruoli tipici del teatro d’opera europeo. Qui oltre alle doti “di razza”, che contemplano ovviamente anche una specifica padronanza ritmica, conta anche molto la partecipazione emotiva, la caratterizzazione dei personaggi. E in questo senso la compagnia di canto di questa produzione ci ha offerto una varietà di atteggiamenti insolita che ha movimentato lo spettacolo anche dal punto di vista strettamente musicale. Ne ha beneficiato anche la Bess di Kristin Lewis, la voce più impostata secondo i canoni classici che forse, anche a causa della propria meno evidente partecipazione emotiva, ha aggiunto un che di irrisolto alle caratteristiche del proprio ruolo, che, come dicevamo, alla fine risulta essere il più enigmatico.
Perfetto nella sua arrogante estraneità alle dinamiche spirituali dei personaggi più coinvolgenti e tuttavia elemento del tutto a proprio agio nell’humus della comunità di Catfish Row, il quartiere nero di Charleston, in South Carolina, è lo Sportin’Life di Chauncey Packer, cantante-attore che sostiene un ruolo che richiede una particolare versatilità scenica. Ad Angel Blue, Clara che apre il sipario con l’immortale Summertime, tocca il gravoso compito di rompere il ghiaccio e lo fa in maniera straordinaria, indicando con la propria specificità vocale la chiave per intendere tutto ciò che andrà a seguire. Morris Robinson è un Porgy praticamente perfetto dal punto di vista vocale (ancora, un timbro e un corpo di voce impressionanti) e scenico, che si immedesima in tutto e per tutto in un personaggio che rimane se stesso nonostante i rivolgimenti della vicenda. A lui sono spettati gli ultimi, tumultuosi applausi che provenivano da un teatro stracolmo, che con la stessa partecipazione numerica, se non proprio con lo stesso entusiasmo, aveva del resto accolto l’opera di Gershwin a Milano nel lontano 1955. Di grande rilievo la Serena di Mary Elizabeth Williams e sufficientemente in linea con la volgarità del personaggio è Lester Lynch nel ruolo di Crown. Il direttore Alan Gilbert ha svolto un lavoro efficace ponendosi a metà tra coloro che in passato hanno privilegiato maggiormente le novità timbriche e linguistiche, il colore orchestrale dell’opera di Gershwin (ad esempio Lorin Maazel) e quelli che sono stati più attenti allo sviluppo narrativo della vicenda e al peso dei cantanti anche in termini di portatori di forti emozioni.
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