di Luca Chierici disegni di © Fornasetti
Si entrava con un misto di curiosità, riverenza, anche un poco di paura nel vecchio negozio di Fornasetti in Via Brera, con quegli oggetti misteriosi e quei visi che ti guardavano dalla vetrina. E poi, in fondo, il costo di un bel piatto che veniva confezionato con una cura incredibile e avvolto in carte preziose, sacchi e sacchetti, non era poi così alto e ti procurava uno stato di contentezza superiore a qualsiasi altro tipo di acquisto, nella spinta alla compulsione da regalo che caratterizza quella città tentatrice che è Milano. «Prendimi una scatola-piatto-luna per il signore!», ordinava alla commessa la simpatica, irreprensibile e autoritaria rappresentante di Barnaba al banco, che con la stessa professionalità ti vendeva il piatto da cinquantamila lire o un piccolo posacenere o l’intero negozio. E se la avventrice straniera capitata lì al momento per poco non cadeva a terra svenuta quando, chiesto il prezzo di una borsa, le veniva risposto con perfetto accento britannico «seven hundred fifty thousand», o se un portaombrelli (magnifico) valeva due stipendi di un neolaureato, tutto ciò faceva parte del gioco.
I visi della Cavalieri, i soli e le lune, le carte da gioco, i siparietti decorati, sufficienti a fare da sfondo per qualsiasi scenografia, erano sapientemente impiegati l’altra sera per questo nuovo Don Giovanni di Mozart, opera del resto talmente universale da poter essere illustrata in una varietà di modi. E anche se il Commendatore trasfigurato in una immagine luminosa proiettata sullo sfondo non rappresentava una novità (lo ricordiamo in una vecchia regìa salisburghese del 1970 con Karajan e Schneider-Siemssen) i corsi e i ricorsi della storia ci insegnano che è oramai difficile inventare qualcosa di assolutamente nuovo. Bene si sono mossi dunque il regista Davide Montagna, lo scenografo Barnaba Fornasetti e il costumista Romeo Gigli (fuori luogo precisare che il parterre contava amici e colleghi di queste celebrità, ossia un milieux che di solito non incontriamo agli appuntamenti musicali di repertorio) nel dar vita a uno spettacolo assai funzionale.
La serata, ospitata dal Teatro dell’arte di Giovanni Muzio, cornice piuttosto insolita, era nata da un’idea fortemente voluta da Simone Toni, innamorato di Mozart e del Don Giovanni (ma chi non lo è?) che ha voluto trovare appiglio alle proprie idee interpretative esaminando il manoscritto autografo per cogliere le differenze tra la versione originale di Praga e quella di Vienna. Dalla scelta di una compagine di soli trenta elementi che utilizzavano strumenti d’epoca è scaturita una lettura a un primo ascolto sconcertante (come spesso avviene con Toni), con tempi serratissimi che a volte mettevano in difficoltà i cantanti, sonorità secche, accordi strappati, secondo una filologìa che richiede una buona dose di tempo di assestamento per l’ascoltatore, così come era avvenuto quasi vent’anni fa con il Don Giovanni diretto da Daniel Harding al Piccolo Teatro.
Toni era in questo aiutato dal proprio complesso strumentale, Silete Venti, che abbiamo già apprezzato molte volte a Milano e da una compagnia di canto in perfetta sintonia col direttore, all’interno della quale abbiamo soprattutto notato Renato Dolcini (Leporello) e Krystian Adam (un don Ottavio che era vestito come al solito un poco frou-frou, ma che vocalmente si imponeva anche di fronte al Don Giovanni di Riccardo Novaro). Meno notevole il cast femminile, con una punta di eccellenza nella Donn’Anna di Raffaella Milanesi. Al fortepiano (una copia di un Walter, carrozzato Fornasetti) vi era l’abilissimo Luca Oberti che infiorettava i recitativi con richiami ammiccanti dal materiale tematico mozartiano. Grande successo e attesa per le repliche milanesi (il 3 dicembre) e fiorentine (il 10, 12 e 13 gennaio alla Pergola) .