di Cesare Galla foto © Kirsten Nijhof
Se c’è un’opera in grado di “assorbire” i tic più bizzarri e le trovate più fantasiose dei registi, questa è Le nozze di Figaro. Può sembrare strano, pensando alla connotazione nettamente “politica” della commedia di Beaumarchais da cui deriva, storicamente cruciale (scritta nel 1778, arrivò in scena nel 1784) nel suo esaltare la rivalsa della nascente borghesia nei confronti della nobiltà. Su questo piano, la vicenda avrebbe senso solo all’epoca in cui si svolge, la vigilia della rivoluzione francese. E già pensare di spostarla nei pressi di qualsiasi altra rivoluzione sarebbe una discreta forzatura. Ma ci ha pensato Lorenzo Da Ponte a togliere d’impaccio – ovviamente con il beneplacito di Mozart – chiunque da allora e per sempre si ponga il problema di inscenare questo capolavoro. Perché nelle Nozze lo “scandalo” del tema politico è così attenuato, almeno nella nostra prospettiva, da risultare pressoché ininfluente. Il letterato di Ceneda lo fa capire fin dalla prefazione del suo libretto, dove spiega che più che una traduzione dall’originale francese, egli ha realizzato un adattamento: «Il tempo prescritto alle drammatiche rappresentazioni, un certo dato numero di personaggi comunemente praticato nelle medesime ed alcune altre prudenti viste e convenienze, dovute ai costumi, al loco e agli spettatori, furono le cagioni per cui non ho fatto una traduzione di questa eccellente commedia, ma una imitazione, piuttosto, o vogliamo dire un estratto».
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Delle “prudenti viste e convenienze”, che hanno sradicato con eleganza ogni eccesso politico, a Mozart non interessava nulla, anche se ovviamente non era certo ignaro che fossero quanto mai opportune. Al musicista interessavano la “folle giornata” dei suoi personaggi, la giostra della passione e dell’amore, la commedia umana intessuta di menzogne e intrighi, di leggerezza e di profondità, di perfidia e di tenerezza, alla fine nobilitata nel perdono. Il suo scopo era portare in scena la vita attraverso le forme dell’opera, e quello gli è riuscito, come forse mai prima né dopo nella storia del teatro per musica: com’è stato detto benissimo, una rappresentazione sulla ricerca della felicità.
L’universalità delle Nozze di Figaro è psicologica, non politica, ed è per questo che quest’opera tollera le attualizzazioni, del resto sempre più frequenti in questi ultimi anni. Un riuscito spettacolo del genere si è visto al Teatro Comunale di Bolzano, dove la stagione Oper.a 20.21 ha portato un allestimento proveniente dall’Opera di Lipsia, firmato per la regia da Gil Mehmert, per le scene da Jens Kilian con la collaborazione di Eva-Maria van Acker, per i costumi da Falk Bauer. Spetta a questi ultimi introdurre lo spostamento cronologico più evidente dello spettacolo: a giudicare dagli abbigliamenti, siamo negli anni ’60 della nascente epopea rock. Lo conferma il fatto che Cherubino nel cantare la sua immortale Aria “Voi che sapete” imbraccia una chitarra di quell’epoca, mentre Basilio per fare musica si porta dietro una tastiera elettrica. Mehmert risolve così i fremiti rivoluzionari o protestatari del capolavoro e non si sente il bisogno di altro, né si resta sconcertati dal dislocamento temporale. Merito del fatto che invece l’allestimento è congegnato scenograficamente in modo da offrire una visione completa e quanto mai interessante dell’incessante meccanismo di entrate e uscite, di apparizioni e di occultamenti dei personaggi. Sotto gli occhi dello spettatore, infatti, c’è la sezione di un palazzo rococò a tre piani, pieni di stanze e camerini, collegati fra loro da scale e scalette. I personaggi sono quasi sempre tutti in scena, anche quelli sui quali non c’è il fuoco dell’azione, ma che si possono vedere mentre si riposano o si preparano ad entrare. Il risultato è un’interessante rappresentazione “integrale”, di artificiale ma spettacolare teatralità, del tutto funzionale all’indiavolata drammaturgia disegnata dai versi di Da Ponte e soprattutto dalla musica di Mozart.
Se la direzione musicale fosse stata all’altezza di questa generale spigliatezza (ben assecondata anche dai gesti e dai movimenti di tutti gli interpreti, assai disinvolti), saremmo a parlare di un’edizione memorabile. Non è così perché dal podio il giovane direttore italiano Enrico Calesso, molto attivo soprattutto in Germania, non trova la chiave né della grazia né della brillantezza, sprecando la qualità dell’orchestra Haydn (comunque precisa in tutte le sezioni) in un’esecuzione di generica esuberanza, poco incline a disegnare il patetico che spesso stende la sua ombra sulla vicenda, poco attenta ai contrasti dinamici, alle sottigliezze di colore.
Note positive, invece, dalla compagnia di canto, nella quale afferma perentoriamente la sua verve musicale e scenica Olena Tokar, la Susanna più naturalmente mozartiana, per vocalità e stile, che ci sia capitato di ascoltare da parecchio tempo. Leggerezza ironica, malizia e semplicità si fondono in un’interpretazione di alto livello, sostenuta anche da un timbro di piacevole luminosità, sempre ben controllato in tutte le zone della tessitura. Al suo fianco, Sejong Chang è un Figaro di ottima presenza scenica e di doti vocali sicuramente interessanti, che non sempre sono dispiegate con eguale efficacia, anche per una chiarezza di colore che non si confà a tutti i passaggi della parte, ma che non prescindono mai da una sorvegliata qualità espressiva. Molto bene l’Almaviva di Mathias Hausmann, la cui prova rende efficacemente il mix di orgoglio, passione e superbia del personaggio, non altrettanto la Contessa di Gal James, che ha voce elegante e comprensione stilistica evidente, ma non il taglio drammatico che pure servirebbe, anche a causa di un’emissione a tratti piuttosto esangue. Wallis Giunta disegna il Cherubino yè-yè voluto dal regista con ironia e con apprezzabile linea di canto, ben servita sia da una interessante tinta ambrata che da un fraseggio insieme meditato e fervido, com’è nel carattere di questo straordinario personaggio. Positiva anche la prova della piccola folla dei comprimari, con la Barbarina nitida e dolce di Magdalena Hinterdobler, il Basilio grottesco ma non caricaturale di Dan Karlström, l’Antonio esuberante di Marco Camastra, il Don Bartolo di peso di Randall Jakobsh, la Marcellina bisbetica e sarcastica di Karin Lovelius. Misurato il coro Haydn, istruito da Luigi Azzolini. Per tutti, accoglienze di grande entusiasmo.
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