di Attilio Piovano foto © Ramella&Giannese
Grande e significativo afflusso di pubblico a Torino per il «Festival Vivaldi» (5-23 aprile 2017) promosso dalla città medesima (con un ricco cartellone di opera, concerti, cinema, mostre, incontri e varie manifestazioni collaterali). Capofila il Teatro Regio e la direzione artistica di Gastón Fournier-Facio che ha fortemente voluto il Festival, ideandolo e coordinandolo; e proprio al Regio, la sera di giovedì 13 aprile 2017, è andata in scena L’incoronazione di Dario, il vero clou dell’intera kermesse vivaldiana. Successo incondizionato per un allestimento di classe con un cast di alto livello e la direzione attenta, scrupolosa, ma anche scorrevole e pimpante, dello specialista Ottavio Dantone (altresì ottimo maestro al cembalo). Un ‘dramma per musica’, L’incoronazione di Dario, sul non eccelso ma invero ben congegnato libretto di Adriano Morselli, ligio alle convenzioni dell’epoca (con alcune soluzioni drammaturgiche a dire il vero assai moderne ed efficaci), dramma prodotto per il veneziano Teatro Sant’Angelo dove andò in scena il 23 gennaio 1717. Mai rappresentato, ovviamente, a Torino – vi approda solamente nel 300° – che pure vanta il primato di custodire presso la Biblioteca Nazionale Universitaria un vastissimo corpus di manoscritti vivaldiani (Torino contende il primato a Dresda ed entrambe le città raccolgono documenti infinitamente più numerosi rispetto a quelli conservati nella città lagunare, per quanto singolare possa apparire la circostanza).
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L’allestimento (dunque scene e costumi) è frutto di una proficua collaborazione con gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Torino che hanno pensato, non del tutto a torto, di ambientare la vicenda di amore e potere nell’attuale Iran. E allora ecco spiegato l’abbigliamento rigorosamente stile chador moderno della confidente Flora, ma poi ecco anche abiti sontuosi e fuori dal tempo per gli altri personaggi, quanto meno per quelli aristocratici. Non a tutti è piaciuta la scelta di ambientare la vicenda in una raffineria dei tempi moderni, con tanto di barili, selva di oleodotti e regolamentare pennacchio di fuoco sui pozzi in lontananza, scena che poi si piegava a visualizzare anche gli interni (con pochi tocchi e validi, semplici interventi, qualche lampada, suppellettili e pannelli di foggia orientale, una scrivania decorata al traforo in stile moresco e così via): laddove il libretto prescrive di volta in volta ‘Una stanza della reggia’ (dove aleggia il fantasma di Ciro re di Persia), il ‘Cortile della reggia’ stessa, poi ‘L’appartamento di Niceno’, quello di Argene, il ‘Luogo dove i Persiani si radunano per adorare il Sole’ e via elencando.
In realtà le scene (assai curate e visivamente di innegabile impatto) e così pure i costumi si sono rivelati a nostro avviso funzionali alla vicenda. Sicché la regia di Leo Muscato ha potuto muovere con agio i personaggi, predisponendo alcune non spregevoli gags, dando rilievo a singoli passaggi, illustrando gelosie, amori e intimità e per contro l’enfatica esteriorità di momenti ufficiali. Forse si sarebbero potuti evitare i mitra e i guerriglieri in kefiah, ma le tute catarifrangenti degli operai ed anche la troupe televisiva dei giornalisti che intervengono con plateale e servile zelo a raccogliere le dichiarazioni di Dario ormai incoronato e trionfante appaiono plausibili. E poi, diciamolo con franchezza: se attualizzare un’opera settecentesca vuol dire renderla godibile ai giorni nostri, ben vengano operazioni di questo tipo che fanno presa su intelligenza e un pizzico di ironia. Almeno in questo caso, vale a dire nell’ambito dell’opera barocca – come fu al Regio tempo addietro per un haendeliano Giulio Cesare efficacemente ambientato tra le maestranze di un museo egizio – operazioni di tal fatta paiono per lo più accettate dal pubblico e non solo dagli addetti ai lavori (al contrario di quanto avviene al cospetto di innumeri Tosche e Traviate, dove in presenza di segnali di attualità subito schiere di conservatori insorgono invocando la fedeltà al libretto).
Bene dunque sul versante scenografico e registico (davvero stupende le luci di Alessandro Verazzo). Per dire, valida l’idea di far eseguire la terza sezione delle arie tripartite, insomma il famigerato ‘da capo’ dove un tempo i castrati improvvisavano abbellimenti e strepitose varianti, col protagonista di turno in posizione avanzata sul proscenio, sì da ‘anticipare’ lodevolmente il cambio scena e ‘risparmiare’ sui tempi. Lodevole altresì aver tagliato con spirito pratico parecchi e protratti recitativi: la filologia infatti non è mantenere lunghissimi e per lo più inutili dialoghi fin nei minimi dettagli; sappiamo bene infatti come all’epoca l’opera venisse fruita in maniera del tutto differente: si entrava e si usciva dai palchi, si ascoltavano solamente le arie di rilievo, si ‘sorbiva’ il sorbetto durante le arie dette per l’appunto tali e insomma non si restava ore incollati ad una poltrona come oggidì accade.
Detto questo sul piano squisitamente musicale, fatta salva l’ottima prestazione dell’Orchestra del Regio che ancora una volta, se adeguatamente concertata e diretta come nel caso del navigato Dantone, sa esprimersi al meglio nel repertorio barocco non meno che nell’opera novecentesca, occorre riferire del cast; e non si potrà che dirne bene, a partire dalla superlativa prestazione della sempre ottima Sara Mingardo, contralto di lungo corso e dal timbro versatile nel ruolo di Statira. La sua vocalità ha potuto espandersi al meglio nelle arie più impervie e così pure nei momenti di maggior patetismo, con una ricchezza di accenti e di sfumature che solo un’interprete di gran livello può affrontare con sicurezza e innegabile resa (una per tutte, l’iniziale «In petto ho un certo affanno»), oltre che impeccabile nella elegante realizzazione degli abbellimenti. Bene anche sul piano scenico: la Mingardo si è rivelata infatti ottima nel dar rilievo al carattere sempliciotto e provinciale della ragazza, con movenze e atteggiamenti che in più di un caso hanno strappato gli applausi e indotto sorrisi complici (nella scena del suo addio alla reggia propiziato ad arte dalla perfida sorella il regista ha ben giocato sulle convenzioni barocche nel farla entrare e uscire più volte di scena, con innegabile effetto divertente).
Molo bene altresì il contralto Delphine Galou (nei panni della insinuante e cattivella sorella Argene, registicamente ‘caricata’, ma ci stava, specie nella scena della seduzione). Ha disimpegnato con sicurezza le arie che le sono proprie. Spassosa la scena dell’ambigua pantomima con cui chiede a Dario di scrivere una lettera all’uomo che ama, in realtà il tardo e un po’ ebete Dario stesso che stenta a comprendere. Ne derivano stizza, equivoci e misconoscimenti come nella miglior tradizione della commedia dell’arte. Bene il personaggio di Dario sbozzato dal tenore Carlo Allemano, per autorevolezza vocale e raffinatezza espressiva. Da rilevare poi il ruolo non secondario di Niceno ben reso dal baritono Riccardo Novaro e applaudita anche Veronica Cangemi (soprano) nel ruolo di Arpago, pretendente di Statira; applaudita meritatamente, per la parte di notevole impegno, il ‘mezzo’ Romina Tomasoni nei panni di Flora. Consensi anche per Lucia Cirillo (mezzosoprano) nei panni di Oronte, nobile prefetto (ruolo en travesti) ed assai applaudita a fine spettacolo, la principessa Alinda amante di Oronte, Roberta Mameli (soprano), ma è stato applaudito – a nostro avviso – il ruolo patetico e lacrimevole del personaggio dacché sul piano vocale la Mameli è parsa un poco fuori stile, con un vibrato eccessivo, non da opera barocca.
Resta da osservare che non tutta la partitura eccelle, c’è bensì una mezza dozzina di arie di sicuro impatto e di innegabile bellezza musicale, ma il resto dilaga per lo più in una dimensione routinier: si tratta pur sempre di un Vivaldi poco dopo gli esordi operistici dell’Ottone in Villa del 1713. A maggior ragione, resta il merito di questo allestimento di aver catturato l’attenzione di pubblico e critica convincendo appieno.
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