di Attilio Piovano foto © Ramella&Giannese
Penultimo titolo in cartellone, per la stagione del Teatro Regio di Torino: in attesa del conclusivo Macbeth. E si tratta del Flauto magico, inossidabile capolavoro che per il pubblico è sempre un piacere rivedere e riascoltare. Se poi – come in questo caso – lo spettacolo è di buona qualità, obiettivamente gradevole, coerente, equilibrato e senza inutili stramberie, il successo pare garantito. Non a caso, a fine serata, lo scorso martedì 16 maggio 2017, una sala gremitissima lo ha lungamente applaudito, decretandone la riuscita. Così già era accaduto nel 2014: l’allestimento è infatti una ripresa di quell’edizione e ne conserva di fatto la validità. Allestimento appena un filino datato se si considera che è pur sempre un’edizione addirittura del 2001 (provenienza il Massimo di Palermo, ma completamente rifondato dal Regio).
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Del tutto tradizionali, lineari e pur tuttavia poetiche oltre che moderatamente allusive, come si conviene, le scene di Giovanni Carluccio che firma altresì valide luci. Scene che intenzionalmente prevedono – come già ci era parso opportuno rilevare all’epoca – una serie, per così dire, di pseudo-citazioni dalla première assoluta del 1791, e dunque funzionali, con tanto di dovuti riferimenti all’universo massonico innanzitutto: e allora la piramide luminescente, le scritte e i cartigli allusivi all’ambientazione entro un antico Egitto immaginario (come da didascalia), fiaccole fumiganti per gli armigeri, le tre porte, a scanso di equivoci, con su scritto bene in evidenza Natura, Sapienza, e Ragione, un semplice quanto efficace gioco di veli e luci (ora rosseggianti, ora azzurro-blu) per le famigerate prove del fuoco e dell’acqua e via elencando.
Niente palmeti, ma l’albero d’ordinanza per il finto suicidio di Papageno, dettagli corretti come il pugnale ben visibile per Pamina eccetera eccetera. Ma nel contempo scene in grado di cogliere anche il versante fiabesco (carino l’apparato volante dei genietti, a metà strada tra navicella e pesce alato con squame) e così pure quello comico vernacolare del meraviglioso Singspiel mozartiano: e allora il serpente-mostro-biscia nella scena iniziale che strappa un sorriso e pare la rivisitazione del Brucaliffo in Alice nel paese delle meraviglie di Burton (tant’è che ci si aspetta di vedere poi subito comparire il naïf Johnny Depp, anziché Tamino, ma è un dettaglio). Certo, restando ancora sul fronte delle scene, occorre dire come le sfingi-arieti risultino di rara bruttezza. Peccato poi per il vistoso cigolio delle enormi ruote del carro di Sarastro immortalato la sera della prima perfino dalla diretta radiofonica. Per carità, son cose che capitano nei migliori teatri e di solito vanno a posto durante le repliche.
Anche i costumi di Nanà Cecchi appaiono in linea con quanto occorre: Papageno con tanto di gabbietta di vimini, Astrifiammante come si conviene, idem i genietti, i sacerdoti avvolti in pepli (bene la diversificazione cromatica per Tamino/azzurro e Pamina/salmone, Regina della notte e Monostato); appena un tocco di kitsch per le tre Dame in versione semi-dark con anfibi. Curioso poi quell’uovo che spenzola come una nuda lampadina nella scena con le colonne e pare una (inutile e arzigogolata) citazione pittorica (la celeberrima Pala di Brera di Piero della Francesca). Pulita, condotta con discrezione, piena di studiate (e fin stucchevoli) simmetrie la regìa di Roberto Andò (ripresa da Riccardino Massa). Peccato che vi permangano quei piccoli nei già segnalati nel 2014: era l’occasione per fare ammenda. E allora la vecchina che si ‘trasforma’ in fascinosa Papagena, ma quasi non ce ne accorgiamo dacché fugge subito di lato; l’insistito espediente (assai sfruttato e non certo una novità) di far scorrazzare gli artisti in sala con troppe entrate e uscite laterali e scorribande sui praticabili a lato dell’orchestra. Si potevano poi lasciar cadere alcune gags un po’ da avanspettacolo che già avevano destato perplessità: Papageno che abbraccia il direttore facendosi consolare, come pure si poteva evitare di fargli pronunciare ancora una volta e con enfasi la parola Barolo nel momento in cui apprezza il vino della cantina di Sarastro, peccati veniali pur in linea con la tradizione popolare del Singspiel.
Discutibile l’evocazione di Pamina nell’aria del ritratto: se ne viene fuori da una cornice come un pupo siciliano, movimentata da uomini incappucciati (certo i sacerdoti) come nel Ku Klux Klan. Risibile l’idea di far muovere Monostato ed i suoi, ipnotizzati dal Glockenspiel, con i classici movimenti da danza egiziana stilizzata come nei cinepanettoni di Massimo Boidi & C. Sempre efficace invece la soluzione adottata per far sparire i ‘cattivi’ e dunque Regina della Notte, Monostato e Dame ‘assorbiti’ in una nuvola nerastra resa con un semplice velo che li avvolge come in un turbine, così pure riuscita la chiusa con la luce che trionfa ed il coro ben avanzato sul proscenio.
Ed ora il cast. Nuovamente gran mattatore il navigato Markus Werba (Papageno), vero protagonista assoluto, voce sicura, gran presenza scenica, divertente e magnetico, coinvolge immancabilmente. Benino il Tamino di Antonio Poli, ma senza regalare eccessive emozioni, bene Olga Pudova, come già nel 2014, una Regina della Notte invero non priva di piccole incertezze nella prima aria, ma che poi tiene col fiato sospeso nell’impervia Der Hölle Rache nonostante certe asprezze. Molto apprezzata – meritatamente – Ekaterina Bakanova nei panni di Pamina, grande sensibilità e delicatezze di sfumature. Corretto il Monostato di Cameron Becker, esagitato quanto occorre, passabilmente ieratico (anche se un po’ ingolato) il Sarastro di Antonio Di Matteo, ma gli mancano le note gravi e la possanza complessiva. A posto le tre Dame, sia sul piano vocale sia su quello scenico (Sabina von Walther, Stefanie Irányi ed Eva Vogel), meritatamente applaudita Elisabeth Breuer, una Papagena frizzante e coinvolgente. Volenterosi i tre genietti (elementi estrapolati dalle fila delle voci bianche del Regio), ma con vistosi problemi di intonazione.
La direzione di Asher Fisch ha destato notevoli perplessità, fin dal triplice accordo iniziale, fin dal sublime fugato dell’Ouverture, parso moscio e privo della giusta incisività. Tempi discutibili, per dire velocissima l’aria di Papageno con i campanelli, tirato via il fugato degli armigeri; poco curati i contrasti, fin dall’esordio laddove il pathos e l’affanno di Tamino rincorso dal serpente dovrebbe virare in un clima gioioso, alla comparsa delle Dame, e invece tutto pareva omologato.
Discreta l’orchestra, nonostante la direzione e malgrado qualche piccola papera; per lo più poco incisivo il coro, pur corretto, ma come tenuto sottotono. Dieci complessivamente le recite sino a fine maggio potendo contare su un doppio cast.
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