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La Biennale musica di Zagabria

di Gianluigi Mattietti
21 Maggio 2017
in XX e XXI
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Home XX e XXI
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di Gianluigi Mattietti


La Biennale di Zagabria, una delle più importanti e prestigiose rassegne di nuova musica in Europa, ha colpito anche in quest’edizione per la ricchezza e la varietà della sua programmazione: dieci giorni fitti di concerti ben suddivisi tra proposte sperimentali, molto “cool”, dall’approccio teatrale e multidisciplinare (e molto attrattive per il pubblico più giovane), ed altre più istituzionali, legate alla classica formula del concerto (sinfonico o da camera), e con un repertorio di solito più accademico. Sono state riproposte anche alcune formule già collaudate in passato, come il concorso internazionale di composizione, dedicato quest’anno al repertorio per pianoforte e orchestra: il “5-minute piano concerto competition” prevedeva l’esecuzione di dieci pezzi finalisti, eseguiti nella stessa serata, affidati al pianista Filip Fak e alla bacchetta di Aleksandar Kalajdžić, ed è stato vinto dall’italiano Daniele Gasparini (allievo di Aurelio Samorì e di Azio Corghi) con un lavoro intitoalto City of Water. Nei concerti sinfonici si sono potute mettere a confronto le due orchestre top in Croazia: l’Orchestra della Radio-Televisione croata diretta da Pierre-André Valade, e la Zagreb Philharmonic Orchestra diretta da Dian Tchobanov.

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Nel primo concerto si sono ascoltate due novità di compositori croati, dal gusto descrittivo, anche un po’ ingenuo: la Sinfonia di Mladen Tarbuk (che ha studiato a Vienna con Friedrich Cerha) dalla scrittura molto tradizionale, con momenti di enfasi sinfonica, zone minimal e venature jazzy; in Kako je Potjeh tražio istinu (Come Potjeh cercò la verità), basato sull’omonimo racconto di Ivana Brlić Mažuranić, il compositore Vjekoslav Nježić trasformava l’ideale battaglia tra il bene e il male in un confronto tra suono orchestrale e suono elettronico, tra gli scampanii registrati, le zone incalzanti delle percussioni, le armonie dense e dissonanti, da un lato, e dall’altro le trame calde e consonanti degli archi, le linee liriche, le zone siderali e contemplative. Nello stesso concerto si è ammirato il violinista slovacco Milan Pala che ha interpretato con grande personalità il Concerto per violino di Harrison Birtwistle, pezzo che reinventa le forme tradizionali giocando su un fitto dialogo, quasi un hoquetus, tra la parte solistica, atletica e sempre movimentata, e l’orchestra, che interviene come un coro, con una grande varietà di espressioni.

Nel concerto della Zagreb Philharmonic Orchestra erano in programma ben cinque prime esecuzioni, tre delle quali di compositori croati, d’impronta classica: Plohe i boje (superfici e colori) di Davorin Kempf si ispirava a Mondrian, ma giocava su progressioni e sviluppi armonici tradizionali, e passaggi neobarocchi; in Phantasmagoria di Ivan Josip Skender, concepito come una sequenza di immagini fantastiche, come un diario di sogni, la materia orchestrale era piena di momenti dal carattere impressionistico e descrittivo, che richiamano Ravel; Springs di Sanda Majurec (allieva di Stanko Horvat, Erich Urbanner e Michael Jarrell) si rifaceva alla forma delle variazioni, basate su una sorta di scheletro ritmico-armonico che rappresentava il “corpo” della composizione, permettendo di alternare una grande varietà di colori e di textures orchestrali, da quelle più dense, massicce, omoritmiche (un po’ alla Messiaen), a quelle puntillistiche, frammentate e danzanti.

Interessante come concezione, ma un po’ naïf nella costruzione, è parso The World of Yesterday and Tomorrow del belga Steven Prengels, che si ispirava alla autobiografia di Stefan Zweig e ad alcune coreografie di Pina Bausch e di Alain Platel, per creare un vero e proprio collage, che metteva insieme elementi disparati, da Verdi a Bach, un discorso di Desmond Tutu, zone liriche, zone percussive, voci e rumori. Il pezzo più convincente è stato Squall della greca Lina Tonia, lavoro per pianoforte e orchestra, congegnato come un progressivo accumulo di energia, basato su spirali di suono guidate dal solista (la pianista Srebrenka Poljak), una materia che si espandeva in maniera molto organica e naturale, generando un gioco policromo, pieno di venature sottili, di sibili, echi metallici, suoni percussivi, citazioni distorte da Chopin e Schubert.

Tra gli appuntamenti più interessanti e “freschi” del festival ci sono stati i due concerti delle Percussions de Strasbourg, gruppo che si è recentemente molto rinnovato, lasciato spazio a una nuova generazione di percussionisti. Ciascun concerto era anche concepito come un unico spettacolo, senza break tra i vari pezzi, con giochi di luce, trascoloranti, intermittenti, con gli interpreti che sembravano realizzare vere e proprie coreografie di gesti. Il primo concerto era interamente giapponese. Si è ascoltato il delicato Rain Tree di Toru Takemitsu, dove si alternavano Glockenspiel, vibrafono e marimba, il bellissimo Sange(pioggia di petali) di Malika Kishino, per sei percussioni, che ricreava, con una grande varietà di timbri, la magica atmosfera delle antiche cerimonie buddiste, circonfuse dai colori dei fiori e dal loro profumo. L’organico era lo stesso usato da Yoshihisa Taira (che è stato maestro della Kishino) in Hierophonie V, gioco primitivo, fatto di urla, esplosioni, colpi violenti, dove i percussionisti sembravano immedesimarsi con la natura fisica dei loro strumenti. Una gestualità analoga si coglieva nelle figure violente dei timpani in Toh di Minuro Miki, e in Sen VI di Toshio Hosokawa, ispirato alle calligrafie orientali, dove silenzi e gesti lenti delle mani si alternavano a improvvisi gesti violenti, tribali, di bongos e grancassa. Nella stessa maniera teatrale era impaginato il secondo concerto, più vario, che spaziava da un pezzo storico come il descrittivo e geniale Le train per tamburo militare di Dante Agostini (1921-1980, grande didatta delle percussioni in Francia), al ripetitivo e ipnotico  Marimba phase di Steve Reich (suonato su una batteria elettronica), dagli spartani Clapping Music ancora di Reich, a Clash Music di Nikolaus Huber, per soli piatti, da Temazcal di Javier Alvarez per maracas ed elettronica, al coreografico Silence Must be! di Thierry de Mey, geniale lavoro dove il percussionista “interpreta” (senza suono) i gesti di un direttore rivolto verso il pubblico, con figure poliritmiche sempre più complesse – solo in una breve sezione si sentono le percussioni campionate e “suonate” da un secondo interprete con un gamepad.

Bellissima la maratona ideata dall’Ictus Ensemble, intitolata SOUND & VISION (tre ore di musica), nella quale l’ensemble belga ha reinventato la forma del concerto, muovendosi su diversi palcoscenici, ancora con una precisa regia (di luci e movimenti), cogliendo la dimensione multisensoriale di molta della nuova musica, permettendo un ascolto davvero “immersivo”, mettendo al centro la presenza fisica, gestuale dell’interprete e il suo speciale rapporto con le macchine e con l’elettronica. Le musiche giocavano sulla manipolazione e l’amplificazione di piccoli oggetti, come i fiammiferi (in Lightness di Juliana Hodkinson), che servivano anche a creare un intimistico gioco di luci, sull’esplorazione del suono di un tam-tam (in Having Never Written a Note for Percussion di James Tenney), sull’illuminazione stroboscopica di una danza (in Light Solo 1di Ula Sickle & Yann Leguay), sul gioco parallelo tra voce parlata e figure pianistiche (in Voices and Piano di Peter Ablinger), sulla coordinazione tra suono e spot luminosi sui musicisti (in Sensate Focus di Alexander Schubert), sugli effetti elettroacustici e luminosi ottenuti facendo roteare in un ampio spazio tre altoparlanti (in Speaker Swinging di Gordon Monahan), su performance semi-teatrale di un brano musicale (in Inflected Points di Davor Branimir Vincze). E in un contesto come questo acquistava nuova forza e un fascino non scontato anche il gesto virtuosistico dei Due Notturni Brillanti per viola di Sciarrino.

La rassegna si è conclusa  con uno spettacolo sperimentale realizzato nel Grič Tunnel, un lungo tunnel scavato sotto la città alta (Gornji Grad) durante la seconda guerra mondiale, per farne un deposito di bombe, e da poco restaurato come attrazione turistica. Gli otto cantanti del Vocal Ensemble Antiphonus vi ha eseguito un lavoro teatrale e vocale di Dalibor Bukvić e Ana Horvat, intitolato TE, undercut opera, dove TE sta per «Thanatos ed Eros», ma è anche il simbolo chimico del tellurio, semimetallo fragile, velenoso, di colore bianco-argenteo, con un odore simile allo zolfo. Con la regia di Natalija Manojlović, l’opera ibridava esecuzione musicale (con ampie sezioni polifoniche cantate dagli interpreti spesso posti in punti diversi del tunnel, quindi con effetti particolari di spazializzazione e di risonanza), rumori di fondo, elementi gestuali (gli interpreti camminavano, si rincorrevano, strisciavano i piedi per terra, si muovevano compatti come in una processione, si rivolgevano minacciosi verso il pubblico allineato lungo i due lati del tunnel, costruivano un lungo domino con dei mattoni), giochi di luce. Vero teatro underground che suggeriva l’idea di una cospirazione, o di un raduno mistico, dove i personaggi apparivano come un gruppo di sopravvissuti a una catastrofe nucleare, costretti all’isolamento totale, spinti a ricostruire delle forme di convivenza e nuove liturgie.

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Gianluigi Mattietti

Gianluigi Mattietti

Docente di Storia della musica all'Università di Cagliari, autore di saggi e studi sulla musica del Novecento e contemporanea, collabora come critico musicale con le riviste Amadeus, The Classic Voice, Musica, Il Giornale della Musica, Golem informazione, Il Corriere Musicale.

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