di Luca Chierici
Con una notevole affluenza di pubblico si è aperta l’altra sera la stagione della Società del Quartetto di Milano: lunghe file alla biglietteria e persino all’entrata per gli abbonati o coloro che erano già in possesso del biglietto, per cercare di sistemare tutti gli ascoltatori in una sala che fino a non molti anni fa si riempiva molto facilmente anche in assenza di “eventi mediatici”. L’evento dello scorso martedì consisteva nel ritorno milanese di un pianista, oggi ventiseienne, che fa certamente discutere e che rappresenta una delle voci più interessanti in un panorama affollatissimo sì di giovani e meno giovani leve, ma anche di strumentisti che esibiscono, quando va bene, solamente punti di forza legati alla mera abilità manuale. Di Daniil Trifonov ci eravamo occupati qui un paio di volte: la prima in occasione del suo debutto milanese per le Serate Musicali nel 2012 e successivamente in occasione di un suo recital del 2014 al Festival di Verbier.
Nel programma presentato al Quartetto Trifonov ha dunque interpretato nella prima parte pagine che ruotavano attorno al nome di Chopin
Già a partire da quegli appuntamenti si era notato come le qualità pianistiche e musicali di Trifonov gli permettessero di eccellere indipendentemente dalle caratteristiche dei programmi da lui presentati, un privilegio concesso a pochissimi e al quale si somma oggi un ulteriore tassello, ossia la capacità da parte sua di far apparire ancora più importanti dei testi che obiettivamente non rientrano nella categoria del “capolavoro”. Non è stata impresa da poco, per lui, il tenere inchiodato il pubblico in sala nella prima parte del recital, per quasi un’ora, suonando pezzi non di qualità eccelsa, legati tra loro solamente dal tema dell’omaggio a Chopin.
Non solo, Trifonov rivede spesso pro domo sua i testi affrontati per comunicare verità che sono forse nascoste nei testi medesimi ma che risultano soprattutto chiare e talvolta sconvolgenti per il suo modo di sentire. E tutte le sue scelte sono portate avanti con un grado di immedesimazione tale che alla fine strappa l’applauso indipendentemente dalle giustificazioni teoriche che stanno o meno alla base delle scelte medesime. È un applauso che prescinde probabilmente dalla bravura, dal suono sempre molto curato, se vogliamo anche dal look altrettanto alla moda del ragazzo, e che trova la sua giustificazione nella totale sua assertività, nella convinzione con la quale egli presenta ciò che ha da dire. Viene in mente – anche se in questo caso l’esempio di confronto proviene da un pianista lontano anni luce da Trifonov – ciò che diceva Arrau del proprio modo di sentire e interpretare la musica: «se il pubblico è d’accordo, bene, se non è d’accordo … va bene lo stesso!» A patto, appunto, di essere fermamente convinti di ciò che si fa, e di farlo bene.
Trifonov non è certo il primo giovane interprete che si rivolta contro l’eccesso di rigore e il rifiuto di ogni personalizzazione tipiche del contesto culturale degli anni ’60 e ’70, dominato dalle figure importantissime di artisti come Pollini, Ashkenazy e Brendel. È una tendenza alla ribellione che negli anni ’80 trovò forse come primo autorevole sostenitore l’indisciplinato Pogorelich, e che oggi viene sposata da molti giovani, attenti però a non cadere in eccessi che potrebbero costare loro soprattutto l’eliminazione dalle fasi cruciali dei concorsi più importanti. Non a caso nel 2010, allo “Chopin”, venne riservato a Trifonov solamente il terzo posto e solamente un anno più tardi, a carriera già intrapresa con successo, il pianista conquistò la prima posizione al “Rubinstein” di Tel-Aviv e al “Čajkovskij” di Mosca. Al di fuori dell’impegno nei concorsi, Trifonov si lascia però andare a notevoli arbitri nel rispetto puntuale dei testi, arbitri che però alla fine si tramutano in altrettanto notevoli punti di forza espressivi.
Nel programma presentato al Quartetto e parzialmente derivante dal proprio ultimo cd, Trifonov ha dunque interpretato nella prima parte pagine che ruotavano attorno al nome di Chopin e nella seconda due titoli originali del musicista polacco. E si è avuta l’impressione che le pagine di Mompou, Grieg, Barber, Čajkovskij, Rachmaninov risuonassero al meglio proprio per l’abilità del pianista nell’utilizzare una palette timbrica e coloristica straordinaria che non solo deliziava la platea ma che gli permetteva di individuare preziosismi sonori che tutto sommato proiettavano questi testi in un contesto a loro parzialmente estraneo. Horowitz (qualche tratto del grandissimo collega è pur presente in Trifonov) e altri mitici pianisti della cosiddetta Golden age erano in grado di far risuonare come grandi capolavori anche pagine francamente innocue. Sottolineare, come è successo l’altra sera, passaggi di notevole modernità in Grieg, impiegare tempo e fatica per studiare le lunghe Variazioni di Mompou sul Settimo preludio di Chopin (quello assimilato da Alfredo Casella a una scena en ralenti di un film di René Clair), districare le non sempre chiare linee di un Notturno di Barber, costituivano non un vezzo momentaneo, bensì una scelta di ricerca consapevole – anche se non sempre condivisibile – su testi insoliti. E qui appunto il pubblico ha premiato proprio l’atto della ricerca e il risultato in termini sonori più che la bellezza presunta dei pezzi in programma. Le Variazioni sul tema del Preludio in do minore di Chopin, scritte da Rachmaninov, erano già da anni nel repertorio di Trifonov. Non si è trattato anche questa volta di una esecuzione integrale: il pianista salta diversi numeri senza con questo diminuire la difficoltà complessiva dell’impresa, come si diceva una volta per le Brahms-Paganini di Michelangeli, anch’esse tagliate qua e là. Trifonov domina comunque questo testo con la sicurezza tecnico-interpretativa che gli proviene anche dall’appartenenza da quell’insieme di fattori che vanno sotto il nome generico di “scuola russa”.
Anche nella seconda parte Trifonov non ha tutto sommato inventato nulla di nuovo. Le Variazioni op. 2 sul tema del «Là ci darem la mano» è un pezzo di resistenza attraverso il quale il giovane Chopin concertista mostrava al pubblico ciò di cui era capace, pur all’interno di un contesto di eleganza sopraffina e di straordinaria autoironia. Trifonov non ha qui rispolverato la versione alternativa della quarta variazione (la eseguiva Michael Ponti, anche se attraverso una gradazione di inevitabili errori) ancora più difficile della già impervia versione definitiva. Nella grande sonata in si bemolle minore, la marcia funebre condotta dal pp al ff e viceversa è un luogo ben noto all’ottocento romantico e ripresa tuttora da tanti pianisti. Si tratta nient’altro che di una visualizzazione narrativa del cammino di un corteo funebre che giunge da chissà dove e si perde poi nel nulla dopo avere giustificato sia un climax sonoro parossistico corrispondente al passaggio del corteo davanti ai nostri occhi che il commovente motivo consolatorio del Trio in “maggiore”: semplice come l’uovo di Colombo, ma è una scelta che fa sempre il suo effetto. E se a certo pubblico è venuto un mancamento nella stretta del primo movimento della sonata stessa, con un Trifonov impegnato allo stremo – lo crediamo per davvero – anima, corpo e ciuffo svolazzante di capelli, beh si tratta di uno dei luoghi più intensi di tutta la letteratura pianistica e non conosciamo grande artista che non abbia puntato qui tutte le carte della propria retorica anche per ottenere un effetto dirompente sugli astanti. Si consiglia a quel pubblico di andare ad ascoltare una delle tante registrazioni live di Michelangeli per capire cosa si possa ulteriormente estrarre da quell’esempio di creatività debordante.
A Chopin Trifonov è ritornato nei bis, con l’esecuzione del Largo dalla Sonata per violoncello e pianoforte op. 65 nella trascrizione di Alfred Cortot (il sublime pianista lo avrebbe centellinato con ben altra qualità di suono e di fraseggio, ma purtroppo questa è solamente una supposizione, in assenza di un documento sonoro registrato). È stata poi la volta della Fantaisie-Impromptu op.66, quella di cui Artur Rubinstein si aggiudicò un manoscritto pagato fior di quattrini, scelta sia per giustificare la sua citazione all’interno delle Variazioni di Mompou che per mettere in mostra una bellissima qualità di cantabile.
Un’ultima osservazione mi sia concessa relativamente al look del concertista. Affascinante, se non bellissimo, Trifonov richiama oggi uno dei tanti ritratti dei giovani romantici in odore di trasgressione. Restando in campo musicale mi viene in mente un bel disegno che raffigura il primo Alkan, pianista-compositore “maledetto” che di Chopin fu anche amico (per quanto lo si potesse essere). Molto curato nell’immagine, Trifonov si fa fotografare con le sneakers appoggiate alla panchetta nera del pianoforte e si presenta al pubblico con una barba fintamente incolta “alla Gergiev” e il capello con una frangia dove la misura dei singoli ciuffi è millimetricamente curata da chissà quale barber shop di grido. Come sono cambiati i tempi ! Mi tornavano alla mente i pianisti di area russa che venivano invitati in Italia nei primi anni ’70 dagli Euroconcerti di Mario Seno e che frequentavano talvolta la casa di Antonio Mormone, prima ancora che l’imprenditore si lanciasse nell’avventura della Società dei Concerti. Lazar Berman, tra un Momento musicale di Rachmaninov e una Tarantella di Liszt suonati in soggiorno, chiedeva disperatamente di telefonare a casa, cosa che il sospettosissimo Goskonzert gli impediva di fare in libertà, consultando un ingombrante orologio da polso da quattro soldi. Boris Bloch si pettinava i capelli arruffati davanti allo specchio dell’ingresso con una spazzoletta estratta da chissà dove, distruggendo con quel gesto persino la magìa degli estratti dalle lisztiane Reminiscences de Figaro accennate poco prima. Bella Davidovich, apparsa le prime volte con una misera pettinatura tenuta insieme da forcine, si presentava qualche anno dopo, emigrata in Occidente, con una acconciatura ultimo grido (ma suonava molto meglio prima). Insomma, squarci di esistenze trascorse non certo nell’agiatezza dei colleghi europei o americani ma forse per questo più vere e genuine. Tutto cambiato con la Perestrojka/Glasnost e la globalizzazione? Certo e probabilmente in meglio. Ma vi assicuro che certe emozioni e certi ricordi musicali di quegli anni non si sono più riproposti con la stessa intensità.
La tecnica del ventiseienne Trifonov (che nel primo tempo della sonata ha avuto un vuoto di memoria subito recuperato) è eccezionale (si pone certo nella scia dei grandi virtuosi come Horowitz, ma solo dal punto di vista tecnico) e non si discute, ma nelle sue esecuzioni si fa strada un certo manierismo, un’involuzione che porta a esasperare le contrapposizioni ritmiche in ossequio a una scuola slava portata a un eccesso di gusto discutibile. Il pianismo di Trifonov (impeccabilmente vestito in frac, cosa ormai desueta) pare deteriorato a causa – forse – di un eccesso di successo che impedisce il progresso di maturazione necessario a un grande pianista. Va inoltre ricordato che il repertorio del pianista russo si incentra in modo preponderante e quasi esclusivo sul percorso musicale romantico e postromantico, da Chopin a Rachmaninov, escludendo spesso il grande panorama della musica tedesca da Haydn a Brahms, passando per Schubert e Beethoven (se si esclude un’esecuzione di questo compositore dell’op. 111 molto discutibile): sarebbe oltremodo interessante vederlo maggiormente alla prova in questo repertorio per un giudizio più completo.