di Attilio Piovano foto © Ramella&Giannese
Quattrocento undici anni: e li porta benissimo, l’Orfeo di Monteverdi, approdato al Regio di Torino, martedì 13 marzo 2018 in un nuovo ed assai valido allestimento che, non a caso, ha convinto appieno il pubblico. Ed è circostanza che piacevolmente stupisce: sala al completo (così pure nel corso delle repliche) e accoglienza entusiasta per un titolo che non si può certo definire né popolare né ‘facile’. Merito in primis della valida regia di Alessio Pizzech che muove con gusto i personaggi entro l’impianto scenico ideato da Davide Amadei, tanto lineare quanto funzionale alla vicenda: un impianto volto ad evocare la location del mantovano Palazzo Ducale dove la favola pastorale venne rappresentata per la prima volta.
E allora una scena per così dire sghemba, inizialmente un poco claustrofobica, con alte pareti (movibili) in boiserie dai rosoni ottagonali che – scorrendo su se stesse ed aprendosi – lasciano poi intravedere un plein air primaverile a far da corollario alla festosa felicità coniugale della mitologica coppia, attorniata da ninfe e pastori: questi ultimi circonfusi da un’intenzionale naïveté in sintonia con gli assunti (così i policromi costumi di Carla Ricotti e le simmetriche, piacevolmente razionali coreografie di Isa Traversi). Poi la tragedia e la morte di Euridice nel giorno più bello della sua vita. Ed ecco il disperato Orfeo agli inferi, con la barca di Caronte stilizzata, ma tridimensionale, a far la spola tra le rive ed a trasportare anime di trapassati (o più propriamente di trapassate, dacché si trattava di figure femminili, più o meno riottose, scalze e come vestite di fango).
Da ultimo l’intervento di Apollo e la festosa danza che specularmente chiude l’opera; e peccato davvero per l’apparizione di una cetra d’ordinanza, ovvero una lira, ma tempestata di led luminescenti, francamente kitsch, un filino dissonante, sul piano visivo: soprattutto rammentando come il primo atto si fosse aperto su un manto erboso punteggiato di fiori ed idealmente adagiato sul pavimento della sala di Palazzo Ducale, manto poi rimosso, anzi quasi strappato ‘a vista’ con coreografica e mesta azione, post mortem della sfortunata Euridice. Una cetra tecnologica dissonante rispetto alla mise di ninfe e pastori, le prime in succinti abitini color azzurro polvere e spesso impegnate in abbracci saffici, ma con casta delicatezza, gli altri dotati di coroncine di fiori e candidi abiti arcadici (di spicco per contro il vistoso e pienamente giustificato rosso fuoco per la Messaggera). Di indubbio effetto coreografico, poi, l’improvviso schiantarsi a terra delle ninfe, atterrite, all’annuncio ferale della morte di Euridice.
Altro piccolo neo dell’allestimento, un uso un po’ eccessivo e disinvolto, se non addirittura smodato, della macchina del vento: si poteva limitarne l’impiego in un paio di momenti topici, un tocco di realismo, ma senza eccedere, così pure evitando certi effetti speciali di ‘lampi e tuoni’, quasi fossimo nel mezzo di una partitura dalla temperie romantica: rammentando che si tratta pur sempre di Monteverdi e non certo di Wagner, ma è peccato veniale. Buone le luci di Andrea Anfossi, sfolgoranti per le scene festose e livide invece, comme il faut per la morte di Euridice.
E veniamo al versante più squisitamente musicale. Alquanto applaudito Mauro Borgioni, baritono dalle incursioni tenorili nei panni di Orfeo: dizione oltremodo chiara e voce assai corposa, forse fin troppo. Si tratta pur sempre di un pastore della Tracia e non certo di Radames o Sigfrido, ma la sua appropriatezza e più ancora l’estrema comprensibilità di quanto andava cantando gli hanno fatto perdonare volentieri qualche eccesso in tal senso. Molto bene poi il soprano Roberta Invernizzi (La Musica e Proserpina) e così pure Monica Bacelli (La Messaggera e La Speranza) dagli accorati accenti e dalla corretta interpretazione stilistica: intero cast allineato su un valido standard qualitativo, bene dunque Francesca Boncompagni nel ruolo, vocalmente marginale, di Euridice, assai ammirati il Caronte di Luigi De Donato ed il Plutone di Luca Tittoto. Un cenno merita l’elegante e graziosa Ninfa sbozzata con aristocratica partecipazione da Leslie Visco dalle buone qualità vocali. Sul podio l’esperto Antonio Florio ha governato saldamente Coro e Orchestra del Regio (maestro del coro Andrea Secchi) ricondotti alla giusta dimensione, con l’apporto dell’Ensemble strumentale La Pifarescha.
La realizzazione del basso continuo era a cura degli Strumentisti della Cappella Neapolitana. Solamente avremmo voluto il regale più incisivo, più graffiante nella scena degli inferi mentre questo importante tocco coloristico dell’organo, artatamente inserito da Monteverdi per designare la terrifica realtà dell’oltretomba, è passato un po’ in secondo piano sotto il profilo acustico. Tempi sciolti e scorrevoli ove occorreva, pathos e commossi indugi dinanzi al dramma dei due giovani innamorati, grazie alle valide opzioni agogiche di Florio stesso che non ha ecceduto nelle dinamiche, ma nemmeno ha realizzato – come talora accade – una interpretazione esangue ed esanime, conferendo al contrario palpitante vivacità e credibilità al tutto.
Un cenno merita da ultimo la presenza di abiti moderni per la cerimonia della sepoltura di Euridice, come a voler sottolineare l’atemporalità della vicenda, come a significare che il plot, pur mitologico e in apparenza lontano dal sentire odierno, in realtà prenda le mosse da sentimenti, paure e moti dell’animo ancestrali, ovvero per così dire sovra-temporali.
Una bella realizzazione, dunque, che va ad aggiungersi negli annali del Regio arricchendone il palmarès, teatro lodevolmente orientato a dar spazio anche all’opera barocca, secondo un preciso e calcolato progetto pluriennale. E il pubblico ha risposto bene a riprova che, se realizzato con gusto, appropriatezza stilistica, intelligenza e professionalità il temuto (da alcuni) teatro barocco non è affatto irrimediabilmente distante dal gusto moderno: a riprova che il timore di ‘annoiarsi’ (paventato e manifestato apertis verbis prima dello spettacolo da talune signore, tanto eleganti e frivole quanto ignoranti e snob, avvezze a frequentare le prime in compagnia del consueto armamentario di rassicuranti e inveterati preconcetti) era destinato a rivelarsi – ovviamente – del tutto infondato.