di Attilio Piovano foto © Ramella&Giannese
Pare incredibile: eppure i Lombardi non si vedevano al Regio dal 1926. Martedì 17 aprile la giovanile opera verdiana è andata in scena nel nuovo allestimento, frutto di co-produzione con Opéra Royal de Wallonie-Liège. I Lombardi alla prima crociata, si sa, presentano una trama complessa, improbabile e farraginosa, oltre che irrimediabilmente datata (e non vi giova di certo il mediocre libretto del Solera, fondato sul poema omonimo di Tommaso Grossi, pur impregnato di umori risorgimentali che garantirono all’opera, al suo apparire un vero e proprio trionfo).
Il difetto maggiore, unanimemente riconosciuto dagli esegeti, risiede nella compresenza di due piani drammaturgico-narrativi che stentano ad integrarsi l’uno con l’altro, anzi a dire il vero non si integrano affatto: vale a dire la vicenda personale di Pagano, ovvero la sua progressiva redenzione che lo conduce a divenire eremita e dall’altro lato la storia d’amore tra Oronte e Giselda, due storie parallele che oltretutto – come è stato fatto notare – si concludono in momenti dissimili, dando vita a due veri e propri finali d’opera (nel III e IV atto). Incongruenze che minano inesorabilmente la partitura alla quale, non a caso, Verdi pose mano una seconda volta convertendola nel 1847 nell’edizione francese (Jerusalem, assai più riuscita e purgata delle debolezze primigenie). Nel complesso i primi due atti, pur maggiormente protratti, risultano più serrati, laddove terzo e quarto presentano zone di ristagno e vere e proprie lungaggini che li fanno apparire più prolissi. Da qui la necessità per registi e direttori di un impegno notevole per ridurne almeno in parte le innegabili manchevolezze.
Detto ciò occorre riconoscere come Verdi, nel 1843 dunque all’epoca dei cosiddetti ‘anni di galera’, al suo quarto esito – reduce dal successo del Nabucco – abbia saputo intessere sul macchinoso plot una musica, pur discontinua e a corrente alternata, dove protagonista assoluto è il coro. Ed ecco allora una quantità di pagine di grande bellezza, dall’iniziale «Oh nobile esempio» al conclusivo (celeberrimo e toccante) «O Signore dal tetto natio» – una sorta di remake del «Va’ pensiero», per così dire in tono minore – poi seguito dal giubilante «Te lodiamo». Così pure corali sono l’esordio del second’atto («È dunque vero») e del terzo («Gerusalem!»). Un plauso speciale pertanto va in primis al Coro del Regio, ben istruito da Andrea Secchi, per l’eccellente prova e l’impegno profuso. Opportunamente la regia di Stefano Mazzonis di Pralafera ‘punta’ sul più o meno coreografico avvicendarsi delle masse (dai costumi monocromatici di Fernand Ruiz, ora cupi, ora policromi, per la scena ambientata nell’harem), muovendole con simmetria entro le tradizionali scene di Jean-Guy Lecat: con tanto di citazione della facciata di Sant’Ambrogio, giù giù sino all’oleografica visione di Gerusalemme (ma quelle colonne sghembe, riciclate dalla prima scena, per evocare la caverna stonano alquanto in un allestimento super tradizionale, più prossime a un Sironi o un Sant’Elia, e chissà perché poi quell’inutile fumigare sul fondo). Così pure aver inserito frammenti dalle indimenticabili immagini della Battaglia sul Ghiaccio tra cavalieri teutoni e popolo russo dal celeberrimo Aleksandr Nevskij di Eisenstein per la musica di Prokof’ev, dava l’impressione di un certo ibrido, un che di forzato, fuori contesto e irrisolto. Pazienza infine per una gestualità prevedibile ed un poco stereotipata della masse (quei soldati che muovono le lance in maniera risibile anziché minacciosa). Corrette e funzionali le luci di Franco Marri.
Successo personale della strepitosa Angela Meade (Giselda, soprano) ammirata in «Oh madre soccorri il mio pianto» ed in «No!…Giusta causa non è l’Iddio», cabaletta di impervio virtuosismo (nonostante qualche piccolo neo qua e là), meritatamente ammirato il tenore Francesco Meli (Oronte), benché talora enfatico, reduce dai fasti piacentini in Gioconda. Credibile il Pagano del bass-baritono Alex Esposito che da ultimo veste i panni dell’Eremita e il Pirro (Scudiero di Arvino) del basso Antonio Di Matteo, assai meno convincente invece il tenore Gabriele Mangione (Arvino) che la sera della prima ha sostituito l’indisposto Giuseppe Gipali. Ancora sul versante femminile da rilevare l’ottima performance del soprano Alexandra Zabala (Sofia) e così pure Lavinia Bini (Viclinda, soprano anch’ella, moglie di Arvino). A completamento del cast il tenore Joshua Sanders (un Priore della città di Milano) e il basso Giuseppe Capoferri (Acciano, tiranno di Antiochia).
Michele Mariotti, ben assecondato dall’Orchestra (con tanto di chiamata in palcoscenico a fine recita per Stefano Vagnarelli, primo violino impegnato in un lungo e celebre a solo), ha diretto con mano salda, infondendo la giusta carica energetica ma anche badando alle sfumature: facendo di tutto per conferire intensità alla partitura ed attenuare – per quanto possibile – l’inevitabile gap tra drammaticità delle circostanze e quei pimpanti ritmi che i tedeschi bollano come um-ta-ta-musik. Successo pieno, a onor del vero, decretato da un pubblico solitamente freddo alle ‘prime’ e repliche sino al 28 aprile con doppio cast.
È di questi giorni infine la notizia delle dimissioni del Sovrintendente Walter Vergnano, al Regio dal 1999, dimissioni che giungono con un anno di anticipo dalla scadenza naturale e che comportano, a norma di statuto, la decadenza altresì del Direttore musicale Gianandrea Noseda e del Direttore artistico Gaston Fournier-Facio, la cui nomina è pertinenza del Sovrintendente stesso. Il 24 aprile il consiglio di Indirizzo della Fondazione del Teatro Regio di Torino, ha deliberato a maggioranza di proporre al Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Dario Franceschini la nomina di William Graziosi a Sovrintendente della Fondazione.