di Alberto Bosco foto © Xavier del Real
Diretta da Pablo Heras-Casado e con la regìa di Calixto Bieito, al Teatro Real di Madrid va in scena per la prima volta in Spagna Die Soldaten, l’opera di Bernd Alois Zimmermann tratta dall’omonima commedia in prosa di Lenz. Lo spettacolo aveva già debuttato cinque anni fa all’Opera di Zurigo e poi alla Komische Oper di Berlino, ma ciononostante il clima in sala era quello di curiosa attesa, dovuto non solo alla novità assoluta del lavoro per le scene spagnole, ma anche alla fama di opera ineseguibile che questo lavoro si porta dietro sin dal tempo della sua gestazione, iniziata nel 1957 e durata ben otto anni. Almeno la sera della prima, una parte considerevole del pubblico ha preferito, senza dare scandalo, abbandonare il teatro nell’intervallo, intuendo che la seconda parte non sarebbe stata troppo diversa dalla prima, e lasciando ai più volenterosi e ben disposti il compito di bersi fino in fondo l’amaro calice di questa partitura. Così alla fine, dopo questo processo di autoselezione, il verdetto del pubblico è stato ampiamente favorevole, con lunghi applausi, da un lato anche liberatori, per scrollarsi di dosso lo scomodo messaggio dell’opera, e dall’altro di compiacimento, per il livello dell’esecuzione e della messa in scena, per la prestazione eccellente di tutti i cantanti.
Un’ovazione particolarmente fragorosa ha accolto Heras-Casado e l’orchestra, in realtà un tributo dato più sulla fiducia e sull’onda dell’entusiasmo, che non per aver giudicato l’esecuzione con cognizione di causa. Cosa del resto pressoché impossibile, dato che la tanto decantata complessità di quest’opera, le sue fantomatiche strutture che si rifanno a ricercari, ciaccone, toccate, tropi e via dicendo, le divisioni degli archi in cinquanta e oltre parti reali atonali, le complicatissime sovrapposizioni ritmiche delle percussioni (cui si aggiungono in una scena anche i cucchiai dei soldati) sono tutte cose che restano sulla carta e non sono percepibili all’ascolto altro che come generiche atmosfere, come effetti ora minacciosi, ora pulviscolari.
Ammettendo poi, per pura ipotesi, che la complessità sia un criterio estetico da adottare nel giudicare le opere d’arte, nel caso della musica la complessità si dovrebbe misurare sulla natura dei sentimenti espressi dalle note, sulla variegata gamma di sottili sfumature interiori che essa è in grado di evocare. Ebbene, nel caso dei Soldaten, bisogna purtroppo ammettere che c’è un’enorme sproporzione tra l’intricata scrittura orchestrale e vocale, e la paletta espressiva della musica, ridotta a poco più che ai due colori primari dell’espressionismo: l’incubesco angoscioso e il violento disperato. Ciò non significa che in questo limitato raggio d’azione la mano di Zimmermann non sia quella di un maestro, di un compositore che abbia fatto sua la lezione tanto dei padri dell’espressionismo musicale come dei loro nipoti di Darmstadt; e basterà citare ad esempio il terzetto di voci femminili nel terz’atto, forse il momento più significativo dell’opera.
Analoga, se non maggiore, è la sproporzione che si osserva tra il libretto, in buona parte costituito da una selezione letterale di scene del dramma di Lenz, già frammentario di suo, e la sua realizzazione musicale. L’originale teatrale, infatti ha tratti di commedia ed è definito da una chiara denuncia sociale, limitata a un certo ambiente (la borghesia) e a una certo problema (l’incontinenza sessuale dei soldati) e si conclude pure con il suggerimento di una soluzione pratica, seppur provocatoria e mezzo ironica. Tutto ciò, nella visione megalomane di Zimmermann, diventa invece un catastrofico dramma di dannazione cosmica, la descrizione di un mondo allucinato dove non è dato rinvenire altro che sopraffazione e violenza, e dove a quei poveri mostri che sono gli esseri umani (nessuno escluso: mamme, papà, preti, baroni, soldati, ragazze) non viene additata altra strada se non quella dell’autoannientamento, doviziosamente illustrato dalla proiezione di un filmato dell’esplosione di una bomba atomica che, secondo le originali indicazioni sceniche per fortuna non rispettate da Bieito, dovrebbe accompagnare il lacerante Ur-Schrei del finale.
Del testo di Lenz, invece, Zimmermann accoglie e amplifica la struttura drammaturgica polemicamente anti-classicistica, con libertà di tempo e azione e commistione di più registri stilistici tipiche dello Sturm und Drang, il movimento protoromantico che vedeva in Shakespeare un modello e di cui Lenz fu un esponente. Nell’opera l’irregolarità con cui procede la vicenda è ancora più accentuata dalla decisione di proporre alcune scene in simultanea, secondo una particolare concezione del tempo drammaturgico che Zimmermann definiva «sferico». Negli anni ’60 dell’Ottocento il buon Boito, quando era un giovane avanguardista scapigliato smanioso di rinnovare l’opera italiana, aveva preso a definire «sferica» qualunque opera d’arte avesse per lui traccia di sublime: Dante come Omero, Shakespeare come Mendelssohn, al punto da attirarsi le ironie dei più, Verdi compreso. Cent’anni dopo, il «tempo sferico» di Zimmermann presenta la stessa sublime indifferenza alla storia e al divenire, nel concepire un tempo in cui passato, presente e futuro coesistono.
Questa concezione, derivata da certe riflessioni di tipo teologico, si concretizza poi sulle scene in un teatro ispirato alla lontana al modello medievale della scena unica e simultanea. Solo che lì a orientare secondo una drammaturgia gli avvenimenti sparsi nello spazio e nel tempo era la presenza fisica dell’inferno e del paradiso, che segnavano i due poli simbolici tra cui era contesa l’anima dei protagonisti. Nei Soldaten, non essendoci che l’inferno, viene a mancare una qualunque altimetria che indirizzi l’azione, al posto della quale abbiamo invece una semplice alternanza di scene di sopraffazione e di scene di intimo delirio. Per cui la gragnuola di colpi di timpano che ci accoglie nel preludio suona analoga a quella che ci viene scaricata addosso a metà strada o nel finale, e parimenti il canto allucinato di Marie, quello stridente di Desportes, quello mellifluo della contessa De la Roche, quello petulante di Pirzel sono più che altro dei distintivi esteriori, non tanto l’espressione di personaggi dotati di uno sviluppo interiore. A variare nel corso dell’opera sarà solo l’intensità fonica della musica, perché se passato, presente e futuro non hanno autentica realtà, tutto è già determinato e non c’è spazio per nessuna azione morale responsabile: unica via d’uscita, per dir così, sarà dunque il grido informe incapace di opporre alcunché al negativo.
Calixto Bieito, famoso per impostare le sue regìe sulla triade prevaricazione, sesso, violenza, sembra aver trovato in questo caso un’opera fatta apposta per lui. Nonostante l’indubbia efficacia della messa in scena, resta però il sospetto che una certa esuberanza provocatoria e l’invadenza delle proiezioni sui multipli schermi abbiano finito per far passare in secondo piano le raffinatezze timbriche della partitura e il suo lato onirico, pur sempre interiore, per quanto distorto. Bieito comunque mostra di aver colto perfettamente i presupposti di partenza da cui l’opera di Zimmermann trae tanto la sua originale fisionomia, quanto i suoi limiti. Due suoi accorgimenti basteranno a spiegarlo. Il primo è quello di aver posto l’orchestra e il direttore, tutti vestiti con tuta mimetica militare, su di una struttura metallica poggiata sul palcoscenico a sovrastare i cantanti e anche la platea: il risultato è l’effettiva incarnazione del ruolo che la musica ha in quest’opera, cioè di aggredire con violenza protagonisti e spettatori, opprimendo sul nascere qualunque possibilità di riscatto da una realtà identificata una volta per tutte con il male assoluto. È proprio questo procedere implacabile e ossessivo a distinguere Die Soldaten dal Wozzeck e dalla Lulu, cui smaccatamente si rifà, poiché non c’è traccia di quella empatica pietà che è sempre presente in Berg e ne giustifica la musica, né del resto c’è alcuna apertura a una dimensione metafisica come avviene in altri maestri della musica di denuncia (Schoenberg, Webern, Dallapiccola).
L’altro dettaglio rivelatore è il gesto iconoclasta della prostituta che nell’apocalittico finale prende a mazzate gli stucchi del teatro, un gesto che arriva a simboleggiare l’impotenza della musica e della cultura di fronte a una simile visione plumbea della vita: se all’uomo è negata per principio qualunque forma di reazione morale, gli è tolta anche la possibilità di articolare il dolore e il male in termini linguistici, di comunicare con i propri simili, condannandolo quindi agli urli primordiali e alla furia distruttrice con cui si chiude l’opera. Anche questo a ben vedere, è segno dell’estremismo con cui Zimmermann interpreta il suo ruolo di epigono dell’espressionismo storico, cioè quello di portarne alle ultime conseguenze le premesse negative. E questa foga di spingere il linguaggio musicale ai limiti dell’indistinto, di volerlo usare a tutti i costi e in modo paradossale per esprimere una visione del mondo che è così radicalmente pessimista da smentire perfino la possibilità di essere espressa in un linguaggio condiviso, questo spiega anche le frequenti cadute di stile nell’opera, che tanto contrastano con la maestria compositiva dispiegata dall’autore, e il ricorso a facili effetti, primo fra tutti il colpo basso degli altoparlanti nel finale, scatenati in un insostenibile crescendo di soldateschi passi di marcia. Tra il pubblico s’è visto chi batteva le mani al ritmo di questo facile espediente, facendo sorgere il dubbio che, in fondo, il cupio dissolvi, messaggio ultimo di quest’opera, non sia poi così lontano da quello di pura protesta che con molta minore sapienza musicale e maggiore semplicità di mezzi lanciano i gruppi heavy metal nei loro concerti.