di Attilio Piovano foto © Edoardo Piva
Fino all’ultimo è stata in forse: questa sospirata apertura di stagione al Regio di Torino, per le note vicende di questi ultimi giorni e minaccia di cospicui tagli al teatro (oltre due milioni) da parte del Fus. Stato di agitazione generale, dunque, forti preoccupazioni, ma anche la garanzia – per fortuna – di poter continuare a contare su una banca privata quale partnership principale e sul determinante sostegno per questa produzione. Alla fine è prevalso il senso di responsabilità più ancora lo strenuo amore per il proprio lavoro e per la musica da parte di artisti, maestranze e di tutti i lavoratori del Regio che hanno deciso ugualmente di mandare in scena lo spettacolo (nonostante il rischio di sciopero fosse tutt’altro che scongiurato) facendo precedere l’apertura del velario, la sera di mercoledì 10 ottobre 2018, da un articolato, misurato e nel contempo accorato comunicato.
Poi ecco il fuoriclasse Pinchas Steinberg fiondarsi sul podio per dirigervi quest’opera cardine – vero simbolo del Romanticismo declinato sul versante italiano – opera che, della cosiddetta trilogia popolare, è forse in assoluto quella più percorsa di inquietudine e mistero. Un concentrato di passioni e di conflitti, un plot – si sa – che riserva non pochi colpi di scena, l’ultimo – clamoroso – in chiusura, col disvelamento, da parte di Azucena, della vera identità dell’uomo appena mandato a morte (che si rivela essere il fratello del malvagio Conte di Luna). E non a caso Steinberg che al Regio negli anni ha colto svariati successi in opere anche molto dissimili, cronologicamente e stilisticamente, ne ha messo in luce – potendo contare sull’Orchestra del Regio in gran forma – i vari momenti cupi e tenebrosi, gli agglomerati timbrici di inaudita modernità, con apici di fortissimi lancinanti, dove occorre, ma anche centellinando passi lirici. E non ha avuto timore di affrontare con baldanzosa veemenza anche quei momenti dell’opera più irrimediabilmente legati al gusto d’un epoca: quelli dove ritmi aitanti ed andamenti da pimpante cabaletta nazional-popolare in sintonia con la temperie risorgimentale, creano l’effetto di un gap, uno iato vistoso rispetto alla tragicità degli eventi.
Nel cast un plauso speciale va innanzitutto alle voci femminili. E dunque la statunitense Rachel Willis-Sørensen che ha giganteggiato nel ruolo di Leonora: bei suoni filati, toccanti accenti, presenza scenica di gran classe, eleganza vocale e tecnica solida; talora forse un eccesso di vibrato ma è peccato veniale, molta empatia e capacità di trasmettere al pubblico lo ‘spessore’ psicologico del personaggio, il suo credere nell’amore grande e la sua capacità di sacrificarsi, per amore, sino a darsi la morte: secondo un topos di natura squisitamente romantica. E il pubblico non a caso l’ha applaudita con convinzione fin dall’iniziale «Tacea la notte placida» giù giù nei vari apici espressivi dell’opera sino al conclusivo ed emozionante «Mira di acerbe lagrime». Una gran prova la sua, e dire che era il debutto nel ruolo. Non meno ammirata Anna Maria Chiuri nei panni della gitana Azucena: ha regalato intense emozioni nel momenti più pregnanti dell’opera, laddove, rinchiusa, con Manrico entro un cubo-gabbia francamente un poco circense, rivede quasi in una sorta di transfer la scena raccapricciante del rogo e non riesce a trovare la pace interiore: pace evocata ed agognata strenuamente nel celebre «Ai nostri monti ritorneremo» affrontato con afflato quasi manzoniano. Molto esasperati certi suoi pianissimi, in contrasto con la veemenza delle sue invettive.
Sul versante delle voci maschili il tenore Diego Torre ha dato buona prova di sé impersonando Manrico. Qualche eccesso e l’emozione che lo ha in parte tradito nel celeberrimo «Di quella pira» con l’acuto finale protratto, ma vistosamente crescente. Da Massimo Cavaletti, Conte di Luna, ci saremmo aspettati forse qualche cosa in più, lo avremmo voluto più scolpito – vocalmente – ma ha comunque raccolto applausi e consensi; bene i comprimari e davvero molto bene il Coro del Regio, ottimamente istruito da Andrea Secchi, coro che si sa ha un ruolo determinante nella partitura, quasi vero e proprio personaggio collettivo: prende parte alla vicenda non solo in senso per così dire spaziale (armigeri, gitani eccetera), bensì immedesimandosi di volta in volta nel pathos che percorre da cima a fondo la superba partitura verdiana. E allora brividi nel coro iniziale, poi nella scena dei gitani «Vedi, le fosche notturne spoglie» in un vero e proprio climax emotivo volto a suggellare il binomio di amore e morte – eros e thanatos – che di quest’opera a tinte forti è la ricetta vincente.
L’allestimento proviene dal Comunale di Bologna, un allestimento con scene e costumi di Kevin Knight, tradizionali (i costumi sicuramente), ed anche le scene, di fatto atemporali, con un doppio scalone simmetrico che viene movimentato. Splendidi i colori degli armigeri, di grande impatto la scena dell’accampamento ai piedi del monte di Biscaglia, una grande luna a dominare simbolicamente, quasi fossimo in Norma, in un cielo ora bluette ora blu intenso, quasi nero. E il nero prevale poi nella funerea parte finale, come prevedibile. Insomma scene e costumi funzionali (anche se la lunga scala laterale che conduce alla torre pareva un poco fuori stile, un po’ difforme rispetto al resto). Ottime le luci di Bruno Poet.
Corretta, ma senza troppi guizzi, la regia dello scozzese Paul Currant con alcune piccole cadute di gusto: per dire il passaggio di lumi nel silenzio più totale in apertura dalla parte IV, come ad evocare un feretro, rallentava l’azione senza aggiungere nulla, così per far entrare una ragazzina bianco vestiva scalza ed urlante, poi quasi violentata, in apertura della III parte è parso gesto esornativo; fin troppo prevedibili certi movimenti delle masse ed eccessivo far scatenare Azucena con un movimento forsennato della corda quasi fosse una domatrice di leoni (leonessa lei stessa), sia pure dopo un sorprendente ed efficace cambio di luce che da cupa si fa livida.
Applausi convinti e invero assai protratti a fine serata alle protagoniste, in special modo, ai cantanti tutti, massimamente al direttore, all’orchestra ed al coro, nessun mugugno ma nemmeno troppo entusiasmo per regista e scenografo (un paio di isolati fischi). Repliche sino al 23 ottobre. E intanto il pubblico torinese si prepara a pregustare l’intera trilogia: dacché dopo Elisir che andrà in scena a novembre, in dicembre sarà la volta di Traviata, l’opera che fa più opera come insegna Pretty Woman, quindi dopo il Gala di danza con Roberto Bolle e la pucciniana Butterfly a inizio nuovo anno, ecco che in febbraio sarà in scena Rigoletto. Una vera scorpacciata per i verdiani doc.