di Giampiero Cane foto © Musica Insieme Bologna
In Europa, nel suo pezzetto in cui ha avuto sviluppo la cultura musicale che oggi viene comunemente detta classica, si è affermata lentamente un’idea che ha fatto del quartetto d’archi un organico speciale per denotare la così detta musica da camera. L’impegno di alcuni compositori nello scrivere per 2 violini, viola e violoncello è stato tale, e così appassionanti sono risultati gli esiti dell’ascolto pubblico di quello che è stato scritto da Beethoven, Schubert, Schumann e di quanti ne hanno seguito le tracce in questo campo fino a Ravel e Debussy che si è potuto convenire in maniera quasi unanime sull’opinione che il quartetto fosse l’organico più adatto e più appropriato a disposizione dei musicisti per rivelare quel che per loro era o è il valore essenziale e l’espressione soggettiva più profonda del proprio senso della vita.
Potrà parere un po’ strano, ma di fatto, togliendo alla musica, cioè al suono che ogni compositore cerca di ottenere con le sue opere musicali, gli effetti di un’apparenza sonora variegata, multicolore, la molteplicità dei timbri degli strumenti non ad arco, cioè ance, ottoni, percussioni varie e, oggi, diavolerie elettroniche, rimanesse proprio l’essenziale a dare la misura e il senso di un pensiero musicale.
La sensazione è un po’ simile a quella per cui si potrebbe dire che contro lo splendore della gibigiana del balenio dei colori, per rendersi conto al meglio dell’essenza di un pensiero plastico-pittorico sarebbe meglio rivolgersi al disegno piuttosto che non al dipinto. In ambo i casi si privilegerebbe una visione che del proprio soggetto preferisce lavorare la struttura più che non l’ornato. Questo modo di valutare è comunque storico e slegato da qualsiasi necessità se non del gusto del momento. Già nel primo Novecento l’idea non aveva più forza cogente cui si attenessero i compositori, né la ebbe fuori da un territorio che potremmo circoscrivere all’area tedesca e franco italiana. Šostakovič, per esempio non sembra affatto attratto da questo punto di vista, come viene messo in evidenza dal programma di Musica Insieme, associazione bolognese, che ha calendarizzato nel suo cartellone l’esecuzione dei quindici quartetti per archi del compositore russo.
Il ciclo è stato aperto il 17 ottobre e si sviluppa in cinque serate, tre quartetti per ciascuna, fino al 22 novembre. I concerti hanno luogo nell’oratorio di san Filippo Neri, una chiesa bombardata e restaurata a sala concertistica e di incontri vari. Questo programma concorre con altri apporti a costituire Bologna Modern, un festival che ha tutti i difetti dei festival quali individuati e descritti da Edward Said in un suo articolo degli anni Novanta raccolto in Musica al limite, collezione pubblicata da Feltrinelli, un festival che già ha avuto modestissimo impatto l’anno scorso e che sembra più o meno bissare quest’anno lo scarso affetto d’appeal. Questo comunque non è certo un demerito, ma dice qualcosa sulla retorica vuota di quanti ogni tanto ri-predicano che quella dei tortellini e della mortadella è (è stata) anche una delle città europee della musica.
Il compositore russo, pupazzetto per il proprio divertimento del sadismo di Stalin non ha una vera colpa nel suo immergere queste musiche cameristiche in un clima di diffusa tristezza, nel massimo grigiore di un paesaggio, probabilmente interiore, che non ha luci di speranza. Essendo stato un giovane anche parzialmente erede del futurismo non era destinato a finire conseguentemente, ma a vedere l’orrore della massificazione sociale e dell’appiattimento di tutto.
Questi suoi quartetti di ciò sembrano essere il rispecchiamento. Nascono tutti dopo la guerra mondiale, ma sentono il formarsi di quella fredda, anche se non sono influenzati dalla inutile e dunque stupida paura. Però non hanno il coraggio di guardare fuori di sé. La musica vi si muove tutta all’interno di se stessa ed è prigioniera per un divieto di prospettiva. In qualche modo vive nella stessa regione di quella di Bach anche se non ha quel retrovisore che costituisce la sicurezza, il terreno solido su cui agisce del grande maestro di Eisenach. Ma come quest’ultima non meritò eredi al suo autore, così fa la’altra quantomeno per quel che possono insegnare i suoi quartetti.
Finora se ne sono ascoltati 6, ma tolto qualche momento di vivacità nel secondo movimento del Secondo quartetto. Nel terzo del Terzo e nel primo del Quinto, il resto ha prevalentemente un mezzo carattere, caratterizzato da rilassamento ed apparentemente monocromo.
La produzione di Musica Insieme ha voluto per l’occasione, che non è da considerare prima di tutto spettacolo, impegnare all’esecuzioni nomi non altisonanti, ma ensemble giovani. La prima serata è stata affidata al quartetto Dàidalos (Anna Molinari, Stefano Raccagni, Lorenzo Lombardo e Lucia Molinari), la seconda al César Frank (Marco Mazzamuto, Nicolò Musmeci, Salvbatore Randazzo e Bruno Crinò). Il primo dei due è sembrato a tratti alquanto disomogeneo nella cavata, ma meno piatto del secondo, la cui monotonia è probaboilmente da riportare al carattere mesto delle
composizioni.