di Attilio Piovano foto © Edoardo Piva
Spettacolo davvero di gran classe, il Rigoletto visto al Regio di Torino a partire dalla sera dello scorso mercoledì 6 febbraio 2019. Si tratta della co-produzione con il Teatro Massimo di Palermo ed altresì con Shaanxi Opera House (Xi’an, Cina) e Opéra Royal de Wallonie-Liège. Se ne parlò a lungo – meritatamente – quando andò in scena a Palermo, sicché a Torino lo spettacolo non a caso giungeva preceduto dalla sua stessa fama, suscitando non poche e legittime aspettative, ça va sans dire innanzitutto per la regìa affidata all’intelligente sagacia di John Turturro, non meno che per il cast di alto livello, entro il quale giganteggiava il nome di Carlos Álvarez.
Partiamo dunque dall’aspetto ‘visivo’ dello spettacolo: al quale le magnifiche e cupe scene di Francesco Frigeri (dall’intenzionale ambientazione settecentesca) conferiscono un colpo d’ala davvero significativo, con quell’infilata di specchiere sulla sinistra (poi in parte distrutte ed infrante a simboleggiare il dramma che campeggia al centro del plot del capolavoro verdiano), la casa di Gilda quasi mezza diroccata – semicitazione, o più che altro vaga allusione a certo Sanquirico – un’ambientazione mantovana con un Mincio fumigante e nebbioso ‘non’ realistico, ma evocato da un sapiente gioco di luci (ottime davvero le luci di Alessandro Carletti ben riprese da Ludovico Gobbi) e ancora la taverna entro la quale ‘agiscono’ Sparafucile e Maddalena. Si ‘sentiva’ addirittura – metaforicamente – l’odore della nebbia mantovana, quella stessa entro la quale l’asso del volante Nuvolari, a inizio Novecento, avrebbe allenato il proprio occhio, gettandosi a forte velocità con la sola compagnia del co pilota terrorizzato nel nulla più totale. Una regia di gran classe quella di Turturro, alla quale ha fornito un determinante apporto la giovane, ma già affermata Cecilia Ligorio, in veste di regista collaboratore (l’abbiamo seguita da presso ed abbiamo potuto apprezzare il lavoro scrupolosissimo compiuto sui singoli personaggi, con un’attenzione maniacale ai dettagli, del resto la Ligorio aveva seguito dal momento della nascita il progetto stesso in qualità di responsabile del coordinamento registico); e il risultato è stato uno spettacolo coerente, ricco di suggestioni emotive, dove la tensione non veniva meno dal primo istante sino al tragico epilogo, con validi movimenti dei personaggi e delle masse, fin dall’esordio con la famigerata maledizione, una gestualità appropriata ed altro ancora.
Qualche neo, certo, non mancava quanto meno a nostro avviso: per dire, a taluno è piaciuta l’idea di far ‘sparire’ la casa intera di Gilda, arretrandola nella nebbia mantovana, ovvero facendola scivolare sul fondo del palco; in realtà così facendo e lasciando Gilda nel suo ‘appartamento’ si finiva per far rapire la ‘casa di Gilda’ e non la ragazza stessa. E pazienza per l’inesistente scala che avrebbe comportato un tocco di inutile realismo entro una regia non ellittica. Più grave, sempre a modesto nostro avviso, aver fatto entrare dal lato sinistro – nella scena clou dell’agnitio, durante la quale Rigoletto prende atto che nel sacco giace la sua stessa figlia morente e non già l’aborrito Duca di Mantova – la stessa Gilda che, curiosamente, se non in maniera addirittura risibile, va poi ad accoccolarsi nel sacco. Biancovestita, pareva un fantasma, ma certo ha destato perplessità il fatto che Rigoletto, come prevede il libretto, armeggi con il sacco mentre la fanciulla lo raggiunge (viva? già morta? improbabile fantasma?) e si infila ‘poscia’ nel sacco stesso. Se una trouvaille intendeva essere e voleva sorprendere, di fatto ha sorpreso: peraltro, negativamente, vanificando quanto previsto da Verdi-drammaturgo. Peccato veniale invece avere fatto mimare il bussare alla porta della taverna col classico gesto toc toc (come i bambini quando giocano al lupo mangiafrutta) nel vuoto totale, lo si poteva evitare, è parsa una inutile caduta di gusto.
Detto questo, grande efficacia visiva – nel suo complesso – dell’allestimento, un allestimento di forte impatto grazie anche alle accurate coreografie di Giuseppe Bonanno. Sicché una menzione la merita senz’altro il corpo di ballo: memorabile, per dire, il movimento di figure nerastre sul lato destro della scena, ad evocare forse le Parche (ma erano quattro) o più semplicemente il senso del mistero de del delitto imminente. Fascinosi e del tutto funzionali i costumi di Marco Piemontese. Forse un po’ troppo compiaciuta l’idea della sopravveste bianca di Gilda che cela però un ‘sotto’ vistosamente rosso fuoco e dapprima – nella scena della confessione al padre – si intravede appena e poi si scorge apertamente. Per alludere allo stupro – di cui tutti abbiamo contezza – si poteva francamente evitare, sarebbe stato più elegante e meno didascalico. Bon. Lo abbiamo detto. Non ce ne vogliano registi e costumista.
Ed ora il côté musicale. Buona – questa volta – la direzione di Renato Palumbo fin dall’esordio. Ritmi aitanti ove occorre, ma anche capacità di trascolorare e porre in luce dettagli timbrici e sfumature varie, con una apprezzabile raffinatezza. Ben assecondato dall’orchestra che è parsa davvero al top, Palumbo ha convinto. Forse in qualche raro caso tendeva un poco a coprire le voci: è quanto è accaduto in «Cortigiani vil razza dannata» affrontato sul piano orchestrale con una veemenza dinamica fin eccessiva (a rischio, appunto, di coprire la voce) e anche un po’ troppo veloce.
Applauditissimo – meritatamente – Carlos Álvarez che ha saputo sbozzare un Rigoletto convincente su tutti i versanti: musicalmente, in primis, ma anche sul piano della recitazione, con momenti di forte ed intensa humanitas, laddove interloquisce con l’adorata figlia, un Rigoletto che non cede mai alla propria dignità, nemmeno nel momento della supplica ai potenti, un Rigoletto che giganteggia come figura di padre, sovrastato dai colpi del fato che si abbattono sulla sua sfortunata vita. Bene, per restare sul versante maschile, altresì il Duca di Mantova di Stefan Pop, che ha appena un poco gigioneggiato qua e là, ad esempio nell’attesissima «La donna è mobile» (rischiando pericolosamente di compromettere l’intonazione), ma invero senza eccessi: forse appena qualcosa di troppo e un po’ sopra le righe in «Questa o quella», ma senza che ne risultasse inficiata la performance. Valido lo Sparafucile di Gianluca Buratto, scaltro e cinico quanto occorre. Per inciso: perché quelle sedie enormi e fuori scala nella scena della taverna? Francamente non lo abbiamo compreso, ma è un dettaglio. Così pure si sarebbe potuto chiudere lo spettacolo con un buio netto e di colpo a sottolineare la tragicità del libretto invece che concludere con la scena pienamente illuminata. Ma è questione di gusti personali.
Ruth Iniesta, soprano di notevole valore, ha sbozzato una Gilda partecipe e toccante, suscitando innegabili emozioni specie in «Caro nome». È emerso al meglio il suo rapporto con il padre e così pure nel suo interloquire con Giovanna (la valida Carlotta Vichi) ha sprigionato emozioni davvero apprezzabili. Valida e a tutto tondo, vocalmente e scenicamente, la Maddalena di Carmen Topciu. Tutti allineati su un buon standard complessivo i comprimari. Da ultimo un plauso speciale al coro, ancora una volta ottimamente istruito da Andrea Secchi, e ben si inseriva entro uno spettacolo che resterà a lungo negli annali del Regio, per la qualità scenografica – merita ribadirlo – registica e visuale, non meno che per gli aspetti più squisitamente musicali ovvero vocali.