di Attilio Piovano foto © Edoardo Piva
Ricetta alchemica di ambito melodrammatico, o se preferite lezione di management quanto a gestione del teatro lirico nel XXI secolo. Prendere un’opera desueta, ovvero diciamo pure obliata, quanto meno mai più rappresentata in epoca moderna, di autore noto a critici e studiosi, certo, ma francamente semi-sconosciuto al pur colto parterre degli abbonati, fatta salva una quota di benemeriti melomani e conoscitori. Possibilmente scegliere l’opera tra quelle con le trame più bislacche e improbabili, valutandone e vagliandone con la massima attenzione la risibile foggia del libretto. Affidarla alle cure di un regista intelligente e ricolmo di idee che prevedibilmente sappia adottare la chiave di lettura giusta, non solo per renderla accettabile, rivitalizzandola, bensì per farla apparire addirittura appetibile. Affiancargli una scenografa sensibile ed iper-ricettiva dotata di altrettanta creatività, fantasia e quant’altro (o viceversa, affiancare un regista ecc. ecc. ad un scenografa ecc. ecc. che poi è la stessa cosa). Mettere la partitura (possibilmente in una autorevole e seriosa edizione critica, e pazienza per le riserve di qualche collega su una trascurabile faccenda di timpani) nelle mani di un direttore sagace e che sappia in toto il fatto suo. Assemblare un cast di tutto rispetto e il successo è assicurato. O almeno le premesse per un’operazione culturale di livello ci sono tutte.
Ecco quanto è accaduto al Regio di Torino, a partire dalla sera di martedì 12 marzo 2019. L’opera s’intitola Agnese dramma semiserio in due (fin troppo lunghi e defatiganti) atti che Ferdinando Paër – musicista parmense di origini austriache (ammirato tra fine ‘700 e primi decenni dell’800 a Vienna come a Dresda, nonché compositore imperiale di Napoleone Bonaparte e dal 1813 direttore del Théâtre Italien di Parigi) – mandò in scena al Teatro privato di Villa Scotti a Ponte Dattaro nei pressi di Parma il 3 ottobre 1809: sullo scombiccherato libretto di Luigi Buonavoglia, che a sua volta lo trasse dalla commedia Agnese di Fizendry di Filippo Casari tratta dal romanzo The Father and Daughter di Amelia Opie (e pare un gioco di scatole cinesi; forse proprio da ciò avrà preso le mosse l’idea della scenografa delle ‘scatole’ medicinali vintage in latta litografata che si aprono? Chissà). Sul podio il fuoriclasse Diego Fasolis che, avvalendosi dell’edizione critica di Giuliano Castellani, ha impresso ritmi pimpanti e una carica energetica incredibile, anche in certi passi esangui e privi di sugo musicale; facendo apparire perfino accettabili estenuanti recitativi che in mano di altri avrebbero ingenerato una noia mortale, ad usare un dolce eufemismo. A lui si deve del resto la ‘riscoperta’ del titolo con una registrazione in forma di concerto risalente al 2008. Quanto alla strepitosa regia è stata firmata da Leo Muscato (Premio Abbiati come miglior regista d’opera nel 2013, già ammirato al Regio per un un’assai originale Incoronazione di Dario ambientata in una raffineria petrolifera in tempi moderni) in sinergia con le fantasiose scene di Federica Parolini.
Certo, se un’opera è caduta nell’oblio qualche sana ragione ci sarà pure. Ormai il capolavoro sfuggito non lo ritrova nessuno. Questo è un assioma. Pur tuttavia riprendere un’opera, in parte deficitaria e piena di manchevolezze, ma anche con qualche pregio e renderla attraente è merito non da poco. I difetti drammaturgici dell’Agnese sono evidenti. Si parla di pazzia di un anziano genitore dal pergolesiano nome di Uberto per la presunta morte della figlia; ma siamo ben lontani dalla pazzia ‘romantica’ che di lì a non molti decenni sfocerà in capolavori dalla ben dissimile sensiblerie. C’è la storia, invero quasi parallela, del pentimento di un ‘donizettiano’ Ernesto ante litteram per aver tradito la suddetta Agnese, ma le due ‘storie’ stentano a fondersi se non in chiusura con improbabile, e farraginoso stridere, nel prevedibile e scontatissimo lieto fine.
Quanto al versante musicale ci sono ingredienti e vocaboli pre-rossiniani che nelle mani del pesarese sapranno esplodere in capolavori di miracolosa bellezza, da Italiana al Barbiere. Qui la musica – pur ammirata da Berlioz e Chopin – scorre su binari prevedibili, anche se con alcune preziosità armoniche qua e là, disseminate, forse quasi per sbaglio. Per amore di verità occorre registrare il grande successo che all’epoca valse all’Agnese decine di repliche nei teatri di tutto il mondo, dalla Scala alla lontana Città del Messico, fino agli anni ’50 dell’Ottocento; poi l’oblio col mutare dei gusti e, soprattutto, con l’apparire di geni musicali di ben altra caratura. Un’opera dalla tematica attuale – vien fatto notare – «in costante equilibrio tra dramma e leggerezza» dove da ultimo a trionfare «sono i temi umanissimi della fiducia e del perdono». E sulla carta ci può anche stare, all’atto pratico non tutto funzionerebbe se una regia di rara perspicacia non avesse saputo evidenziare al meglio i vari registri, senza necessariamente fonderli: dove il confine tra tragico e comico è labile, come nella vita del resto.
C’è in apertura un bosco, ma il tragico re minore dell’esordio collide poi quasi subito con quanto va a seguire e la Natura romantica, tempestosa e minacciosa per gli umani, è di là da venire. Sicché subito si avverte un gap tra testo e situazione scenica. E c’è molto altro ancora. Ma i concertati, per dire, stentano alquanto a decollare e il finale atto primo è davvero povera cosa. Tra le più ridicole chicche di un libretto mediocrissimo citiamo a mo’ di esempio «Signorina, cospettone!» «Merto un fulmine!» «Tacete!». Libretto che peraltro presenta inspiegabilmente qualche merito, ad esempio il chiasmo nell’affidare le stesse parole ad Ernesto e poi assai più avanti ad Agnese. Una piccola raffinatezza.
Aver ideato un impianto dove scatole farmaceutiche che ricreano specifici ambienti e mega bugiardini in latinorum campeggiano a tutto tondo è stato un colpo geniale. Da quelle scatole emergono di volta in volta Uberto stesso, che nella sua cella di malato di mente, quasi la stanzaa di Van Gogh, traccia col gesso silhouettes di tombe, nella sua fissazione di aver visto morire Agnese tra le sue braccia (e la musica lo sottolinea con un mesto refrain, quasi idée fixe berlioziana), ovvero Don Pasquale (altro nome significativo) direttore dell’ospedale dei pazzi. I quali pazzi sono tutte donne vestite da maschi, con abbigliamento da carcerati ‘a rigadini’, laddove le monache con cappellone bianco e immacolato sono uomini barbuti ed hanno calze a righe rosse e bianche stile Pippi Calzelunghe. Il salvadanaio a porcellino donato da Carlotta figlia di Don Pasquale alla stessa Agnese è un capolavoro di ironia. Il muoversi dei pazzi e delle suore, ma anche dei paesani, cuochi, maggiordomi e via elencando è studiato ad arte nei minimi dettagli attimngendpo al cinema copme alle affiches pubblicitarie e ad altre fonti ancora; per dire la gestualità enfatica di Ernesto prende in giro i tic più beceri e inveterati dell’opera seria in maniera irresistibile. E occorrerebbe proseguire a lungo.
Alla musica manca la quinta marcia, forse anche la quarta (e siamo ben lontani dai cambi sequenziali assistiti dall’elettronica delle auto di ultima generazione), insomma un cambio a tre marce come la mitica Balilla. E a proposito di ‘cambi’, la partitura muta ritmo ad ogni pie’ sospinto, ma anziché ingenerare varietà la cosa destabilizza e spesso annoia. Mancano vere e proprie arie memorabili. Ciò nonostante ad Agnese sono affidate pagine di notevole difficoltà che l’ottima María Rey-Joly soprano spagnolo dalla conturbante e fascinosa presenza scenica ha disimpegnato al meglio. Per contro Edgardo Rocha, tenore dalle innegabili doti, ha impersonato il classico tenore belcantista, prendendosi fin troppo sul serio (vocalmente), del resto impeccabile e con squillo stentoreo, ma a renderlo ironico provvedeva la gestualità richiesta dalla regia.
Ottimo è parso il navigato Markus Werba nei panni del pazzo rinsavito Uberto cui è affidata perfino un’aria con corno obbligato «Se per sogno»: sicché l’opera può essere vista anche come una campionatura di topoi e luoghi comuni, dal versante serio a quello larmoyante. Un plauso speciale al basso Filippo Morace, cui è affidata la parte di Don Pasquale, intendente dell’ospedale dei pazzi. Vocalmente a posto i restanti comprimari, ma in realtà protagonisti spesso anch’essi, e allora il tenore Andrea Giovannini nel ruolo del protomedico Don Girolamo e Federico Benetti (basso, custode di pazzi), ma soprattutto ha giganteggiato il soprano Giulia Della Peruta, la cameriera dall’allusivo ed ancor tutto settecentesco nome di Vespina, presentata come colei che alza il gomito e singulta, alla quale spetta un’aria da opera seria dai militareschi ritmi, di innegabile difficoltà interpretata magnificamente.
Bene Lucia Cirillo (Carlotta) e una citazione a Sofia La Cara ed Esmeralda Bertini che si alternano nelle recite nei panni della bimba ‘di sei anni’, parrucca rossa e alter ego di Agnese stessa, vagamente pre-raffaellita. Un cenno doveroso a Carlo Caputo maestro al cembalo (fortepiano), pregevole un passo che pare una sorta di notturno, ottime le luci di Alessandro Verazzi e davvero buona la prova fornita dall’orchestra (rialzata per ragioni acustiche) e dal coro istruito da Andrea Secchi: coro ammirato anche per le innumeri gags, funzionali e mai banali o da avanspettacolo. Spassosi i costumi di Silvia Aymonino ed un vero e proprio climax nella seconda parte che ha conquistato assai più del lunghetto e un po’ noioso atto primo. Un doveroso cenno alle maestranze del Regio guidate dall’esperta Claudia Boasso (Paolo Giacchero direttore dell’allestimento)quanto a realizzazione delle scene: dai bozzetti di Federica Parolini, già più volte citata, ecco prendere forma le ammirate scatole farmaceutiche, unguento, balsamo, barattoli dalle dimensioni fuori scala tra i quali compare Elena Corni arpista in abiti da cameriera.
Uno spettacolo del quale conserveremo a lungo un bel ricordo. Nota di demerito per lo snobismo incallito del pubblico delle prime che ha in parte disertato la serata, ritenendo di non voler conoscere, evidentemente, qualcosa che già non sia conosciuto. Chi c’era sa bene come chi ha colpevolmente disertato s’è perso qualcosa: sicuramente s’è perso l’opportunità di valutare con sereno distacco una partitura invero mediocre, una drammaturgia improbabile ed un libretto di incredibile raffazonatura, pur tuttavia confluiti in un allestimento di gran classe, espressamente prodotto dal Regio. Anche la critica da fuori la cinta daziaria pare aver ignorato il tutto. A noi torinesi francamente non fa problema. Chi c’era sa di aver partecipato a qualcosa a suo modo di unico, nei pregi e nei difetti.