di Santi Calabrò foto © Blandine Soulage
I problemi che sorgono dal confronto con epoche diverse riguardano in generale sia l’interpretazione di un’opera del passato che la sua eventuale reinvenzione: alcuni aspetti sono sovrapponibili, tanto che, nel caso di un rifacimento, possono sorgere indecisioni sul titolo da attribuire al risultato finale. A rigore “Un Didon & Énée di Henry Purcell / Kalle Kalima” – come da cartellone generale della stagione operistica 2018-19 del Teatro di Lione, in una nuova produzione in partenariato con la Ruhrtriennale – preannuncia innesti corposi. Tuttavia in diversi luoghi non secondari – locandina e frontespizio del libretto di Lione – troviamo semplicemente Didon & Énée di Henry Purcell. Alla luce dello spettacolo realizzato, non specificare nel titolo il fatto che accanto alle note di Purcell ci siano ben quaranta minuti di musica composta da Kalima (con l’apporto di Johanna Kalisch a rimpolpare il testo originario) appare tanto oggettivamente discutibile quanto paradossalmente preferibile: perché la messa in scena ideata da David Marton ripropone comunque, e soprattutto, l’opera di Purcell. Nell’allestimento emergono infatti due lati sostanziali di affinità tra interpretazione e nuova creazione su un testo preesistente: sotto l’aspetto ermeneutico Marton trova delle vie singolari e perentorie per chiamare in causa direttamente lo spettatore dei nostri giorni; sotto l’aspetto strutturale, il tessuto additivo ma teleologico di questo gioiello del teatro musicale barocco, convergente per accumulo verso il sublime lamento di commiato di Didone, è talmente adatto a reggere inserti ben calibrati da farli assurgere a una sorta di rilettura.
La prima mossa di Marton è un’esca tesa al pubblico, efficace come la tela di un ragno sapiente. Molti in teatro ridono di gusto, e quindi cedono subito senza accorgersi della trappola, per l’effetto buffo di Jupiter e Juno (i bravi attori Thorbjörn Björnsson e Marie Goyette) che scavando – da archeologi appassionati in abiti adamitici – trovano prima uno smartphone e poi persino un mouse! La scena è irresistibile, anche perché sulla scena gli dèi lavorano ripresi da una telecamera, alle spalle e al centro un video enorme offre una vista sui dettagli. A seguire, l’orchestra comincia a suonare le note di Purcell, e ben presto entrano Belinda e Didone, in abiti moderni e intente a compulsare uno smartphone, l’attività umana oggi più diffusa. Difficile trovare un modo più efficace per affermare che l’opera parla di cose che ci riguardano tutti: ça va sans dire, il trionfo dell’estetica del “teatro di regia”! Marton non si limita tuttavia a ricordare in modo inopponibile che un classico è sempre contemporaneo. È proprio la dimensione del tempo come “successione” a essere cancellata, instaurando un presente mitico ma tangibile, quello della rappresentazione, in cui la possibilità di essere noi stessi “traccia” archeologica si salda al soggetto rappresentato. Siamo ben oltre rispetto a Mortal engines, il film tratto dai romanzi di Philip Reeve: in quel caso la finzione di un futuro post-apocalittico nel quale la tecnologia precedente – quella dei nostri giorni! – appare sotto forma di reperti, non contrasta con il corso di un tempo lineare; qui invece le frecce del tempo si orientano l’una contro l’altra, convergendo pur sempre alla fine sull’immortale lamento di Didone.
Il dolore da abbandono è fra i più atroci, spesso insopportabile per gli umani ai quali quel dolore spegne il sole e può causare la morte. Sicuramente è però insostenibile per gli dèi, che da archeologi dell’umano, sempre più sfaccettato e interessante di qualsiasi Olimpo immortale, da supponenti demiurghi capricciosi dei destini mortali, retrocedono nel finale a poveri disperati. Quando il destino di Didone si compie, Jupiter va a ricoprire con frenesia i suoi reperti, ma non ci riesce del tutto: i cavi di connessione di antichi pc restano in vista e lo stesso Jupiter, sgomento, è ora disteso a terra, straziato empaticamente dall’appello ultimo del dolore: Remember me, but ah! Forget my fate. Dimenticare è la cosa più innaturale per un archeologo! Oltre che nell’apoteosi della sofferenza privata come dato senza tempo, lo spettacolo rimanda alla contemporaneità per altre vie e, ancora, proprio mediante una riapertura rispetto alla fonte virgiliana. Già i ruoli aggiunti di Jupiter e Juno segnalano un ritorno all’Eneide più cospicuo rispetto all’opera originaria. Il genio di Purcell e il talento del suo librettista Nahum Tate, estrapolando dall’Eneide una parte del Quarto Libro, si concentrano sulle vicende individuali e trascurano l’orizzonte destinale che culminerà nella fondazione di Roma per opera dei discendenti degli sconfitti troiani. Nel barocco contano di più gli affetti: gli dèi diventano una finzione, sono solo le streghe malvagie a mandare all’innamorato Enea un finto Mercurio per indicargli la doverosa via del mare, che qui – in Purcell! – già si intravede più come migrazione forzata che come viaggio del destino. Rientrati in gioco gli dèi, Marton restituisce anche un ruolo più importante sia al viaggio che alla guerra, componenti forti dell’epica classica tradotte nei termini di oggi spargendo riferimenti puntuali a migranti e conflitti della nostra cronaca.
Quanto alla plausibilità drammaturgica in rapporto alla struttura, è vero che l’additività informa la macroforma barocca, ma nel caso di Purcell è declinata in modo peculiare anche nella microforma. Non solo, dunque, i sapienti trapassi stilistici dalla musica di Purcell a quella di Kalima sono innestati dal compositore finlandese sul comune denominatore di moduli che si aggiungono, ma la stessa musica di Purcell di per sé reca i segni di un voler “andare oltre”, di espandersi sul piano del significato. Se infatti il principio della passacaglia, il basso continuo reiterato, è la sigla di Purcell, su di esso agisce sia una tangibile tendenza a illustrare gli “affetti” nel senso di una mimesi letterale, sia la tensione a trascenderli: tecnicamente con l’affiorare di stilemi di contrappunto polifonico che si innestano sulla salda struttura periodica e tonale rendendola più densa, spiritualmente in vari modi e in questo caso soprattutto con diffuse premonizioni di tragedia.
In un certo senso, Purcell anticipa con la sua arte le sottili argomentazioni sul vero senso del nesso mimesi/espressione, inclusa una acuminata rilettura di Aristotele, che costituiscono una delle glorie del coltissimo Settecento inglese. Lontani da questo livello ma, perlomeno, solidali all’opera di Purcell, Marton e Kalima infarciscono di premonizioni scena e musica. Non mancano i punti deboli: reinseriti gli dèi si sarebbe dovuto limitare l’apporto stregonesco, e invece alla pur bravissima Erika Stucky (un po’ Venere oltre che strega) si accordano spazi che a volte allentano la tensione dell’insieme. In ogni caso, a esaltare i pregi dell’operazione e a coprire qualche manchevolezza, provvedono la pregevolissima esecuzione musicale e il livello tecnico della realizzazione scenica. L’orchestra dell’Opéra di Lyon, ben diretta da Pierre Bleuse, dà vita, colore e giuste intenzioni alla musica di Purcell, e rende duttilmente quella di Kalima. Ineccepibile anche il coro lionese, che appare – ovviamente – come un gruppo di migranti su una spiaggia. Alix La Saux (Didone) e Claron McFadden (Belinda) esibiscono voci ben proiettate, timbricamente pregevoli e dall’intonazione sicura. Il canto di McFadden si appoggia su un timbro molto omogeneo, mentre La Saux valorizza anche le lievi differenze di colore nei registri a fini espressivi, in una linea di canto che colpisce per la sottigliezza delle nuance di dinamica, accenti, inflessioni della parola. Memorabile l’esposizione nell’aria When I am laid in earth. Le due ampie frasi ripetute sono organizzate da Alix La Saux come una sorta di chiasmo: le prime due semifrasi disegnano una curva discendente, le loro ripetizioni una curva ascendente, dove la ripetizione della prima semifrase è più sommessa e l’ultima semifrase più espressiva e vibrante. L’interpretazione qui si fa carico di rilevare anche nella pagina più famosa, tanto sublime quanto apparentemente statica, la tensione trascendentale di Purcell. Guillaume Andrieux è un Enea efficace, a suo agio sia nel canto che nella recitazione parlata che gli assegna questa drammaturgia. Sulla stilizzata scena triangolare di Christian Friedländer le telecamere portano in vista al centro anche quanto avviene anche negli scorci laterali, e tutto l’insieme risulta di un nitore sfavillante. Il pubblico applaude convinto, ma qualche “buuh” alla fine non manca. Se Purcell diventa una querelle, che oppone due fazioni di ricezione, Marton può ben dirsi soddisfatto!