di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
Leggendo le cronache e gli studi critici relativi alla fortuna delle opere di Gounod in Francia si va incontro a questioni che oggi non hanno più grande motivo di essere ma che rivelano quale fosse a quei tempi il livello di partecipazione dell’ambiente culturale e del pubblico in genere allo sviluppo degli eventi musicali. Dai seguaci più appassionati del compositore, ad esempio, Roméo et Juliette era stata da sempre collocata un gradino al di sopra del Faust, scritto otto anni prima, e considerata il vero capolavoro di Gounod.
La musicologia ha in seguito chiarito come la transizione tra le due opere segua il passaggio formale dallo stile del Grand opéra, tipico del Faust, a quello del Drame lyrique, cui Gounod approda appunto con Roméo et Juliette. Una trasformazione che tiene conto ovviamente anche di una sensibile evoluzione nel tempo dell’arte di Gounod, autore di innumerevoli Mélodies e meno attratto dal teatro wagneriano di quanto si voglia far credere. Oppure vi era chi considerava la musica del Roméo addirittura di più grande impatto rispetto all’analogo titolo di Berlioz, giudizio che venne accolto con una certa sufficienza da Berlioz stesso, che era in ogni caso un sincero sostenitore dell’arte e degli sviluppi di carriera del più giovane collega. Il successo del Roméo alla Scala, per le prime rappresentazioni del 1867 non fu certo unanime e caloroso, e già a quei tempi la critica aveva espresso più di una riserva sulle scarse valenza scespiriane dell’opera di Gounod, in favore di una lettura più diretta a sottolineare l’accostamento felice di arie e duetti ben riusciti. Riusciti anche grazie alle qualità artistiche degli interpreti, che tutto sommato hanno da sempre attirato l’attenzione del pubblico, come è ancora accaduto l’altra sera alla Scala. Si ascoltava la proposta del richiamo a una edizione presentata a Salisburgo, poi approdata alla Scala nel 2011 e infine a New York, con le medesime componenti di allestimento (regìa, scene e costumi) e un parziale rinnovamento del cast e della concertazione e direzione. Tagli a parte, ci pare questa essere in definitiva la versione ultima dell’opera, stampata nel 1888.
Possiamo ipotizzare che Lorenzo Viotti, giovane e talentuoso direttore che abbiamo già ascoltato in teatro nel repertorio sinfonico, abbia probabilmente lavorato sulla partitura lasciatagli dal padre Marcello, che Roméo et Juliette aveva diretto a Vienna nel 2001, e che abbia seguito più di una indicazione per quanto riguarda i tempi, i tagli e quant’altro ha a che fare con il rapporto tra partitura e direttore. Il solo ascolto comparato dell’Ouverture rivela in realtà una differenza notevole di approfondimento musicale a favore del padre, ma in ogni caso si è apprezzata da parte di Lorenzo una buona lettura complessiva, vivace, raffinata più nelle oasi liriche che nei grandi pezzi d’assieme. Una lettura che però non è riuscita a togliere del tutto una certa impressione di staticità e ridondanza del titolo, impressione che certamente la scena fissa di Michael Yeargan e la regìa molto contenuta di idee di Bartlett Sher non contribuivano a mitigare. Il palazzo dei Capuleti – che assomiglia curiosamente all’angolo dei portici sul lato sinistro della Scala – era l’unico elemento incombente dall’inizio alla fine e a poco servivano le aggiunte parziali di arredamento che cercavano di caratterizzare altri luoghi topici come il “giardino di Giulietta”, la cella di Frate Lorenzo o la cripta dei Capuleti. E si è dunque avverato (e rinnovato) ciò che si poteva prevedere, cioè che il vero motivo di plauso da parte del pubblico si concentrasse sulle singole uscite dei due protagonisti e sui famosi duetti , ossia elementi che abbiamo visto essere già stati perfettamente individuati centocinquanta anni fa.
Di non particolare rilievo erano i comprimari, eccezion fatta per il Tybalt di Ruzil Gatin e il Mercutio di Mattia Olivieri – che a quanto pare soffriva di una leggera indisposizione – tanto che Vittorio Grigolo e Diana Damrau hanno avuto compito facile nell’attirare tutte le attenzioni e giustificare i frequenti applausi. Dalla Damrau, Giulietta un poco troppo in carne per il personaggio e già nel ruolo un paio di anni fa al Metropolitan sotto la bacchetta di Noseda, ci si attendeva di più, bombardati come siamo da videoclip che ben prima dell’evento in teatro ci informano sullo stato di salute e sulla bravura dei cantanti. Ma da questi documenti siamo purtroppo viziati perché ci riportano condizioni di volume e di timbro che falsano a volte le reali condizioni del canto di questi divi e dive. In poche parole, non sempre la Damrau esibiva in teatro una emissione così stentorea e presente come è quella che si ascolta attraverso il monitor e le casse acustiche di casa e quest’artista peraltro pregevolissima ci è sembrata più Giulietta nei passaggi di virtuosismo che nella caratterizzazione del personaggio, sempre ammesso che la musica di Gounod risulti molto precisa a riguardo cogliendo una evoluzione del ruolo al trascorrere dei cinque atti. Del resto anche una celebre cantante come la Patti, interprete famosa del personaggio, parve ai contemporanei soprattutto mirabile nei gorgheggi e nelle agilità. Di conseguenza, ma non certo solamente per questo motivo, Vittorio Grigolo ha ribadito il grande successo del suo Romeo nell’edizione scaligera del 2011, aggiungendo se possibili ulteriori elementi di plauso per un canto sempre di alto livello, un timbro fresco e di qualità assai personale e subito riconoscibile, una intelligente analisi delle valenze del ruolo attraverso l’ascolto dei grandi interpreti del passato, massimamente Alfredo Kraus. Di consueto rilievo il Coro della Scala diretto da Casoni.