di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
Secondo l’autorevole Treccani, il vocabolo “Teatro” deriva dal greco ϑέατρον, a propria volta coniato in base al verbo ϑεάομαι, che significa «guardare, essere spettatore». É quindi un termine incontrovertibilmente legato alla presenza di un pubblico che concorre, anche con le sue reazioni, a dar vita appunto allo spettacolo (dal lat. spectacŭlum, derivato da spectare «guardare»). Ci siamo purtroppo dimenticati – è quasi un anno – del significato originario del termine, ma in nostro aiuto, seppure parziale, è giunto lo sforzo non indifferente operato da parte dei maggiori teatri italiani d’opera. Alla Scala, a quasi un anno di distanza dalla ultima rappresentazione del rossiniano Turco in Italia da noi recensito alla fine di febbraio del 2020 è apparsa in streaming una ripresa del Così fan tutte di Mozart per la regìa di Michael Hampe, collaudatissima fin dall’edizione 1983 con Riccardo Muti, originata a Salisburgo, e poi ripresa nell’89 e nel 2007. Una regìa tradizionale, se il termine è appropriato nel caso di un’opera notissima ma non per questo così popolare, che punta sulle simmetrie che regolano il testo di Da Ponte e la partitura e che si appoggia sulle scene di Mauro Pagano, belle ma non certo innovative e a loro volta strettamente in linea con le indicazioni originali, che trasportano il “fattaccio” dello scambio di coppie in quel di Napoli. Nel 2014 si era aperto uno spiraglio innovativo nel momento in cui, per un nuovo “Così” sotto la direzione di Barenboim, il regista Claus Guth si era rifatto a recenti considerazione di stampo psicanalitico che leggevano in chiave moderna la vicenda scabrosa narrata nell’opera mozartiana. Anche in quel caso il personaggio di Don Alfonso assumeva il ruolo di deus ex machina ma i ruoli dei quattro amanti risultavano più sfumati secondo diversi gradi di coinvolgimento. E molto diverse dal solito erano in quel caso le scene di Christian Schmidt, ambientate in una casa-giardino moderna e del tutto scevre da richiami di stampo partenopeo. Ancora in quel caso Barenboim aveva lavorato su certi aspetti cameristici soprattutto durante il primo atto dell’opera, senza peraltro trovare una chiave di lettura non convenzionale nel seguito. Ammesso che sia cosa facile il trovarla, visto che lo stesso Mozart ci sembra quasi deluso dello scioglimento del piccolo o grande dramma: forse una continuazione più in linea con le proprie convinzioni piuttosto libertine, non parliamo addirittura di un ménage à quatre, sarebbe stato più adatto alla sua sensibilità.
Alla concertazione di Muti, e poi di Dantone e di Barenboim, si è sostituita ora quella di Giovanni Antonini, specialista del repertorio barocco. Per quanto oggi la preparazione e l’esperienza di un direttore e di un’orchestra più che professionale garantiscano un risultato di livello certamente ottimale, soprattutto nel caso in cui la partitura contenga già in larga percentuale una chiave di lettura che ammette poche deviazioni, Antonini non sottolinea in modo particolare molti aspetti intimi del fraseggiare mozartiano e si concentra di più sui lati concertanti degli insiemi, seguito da un’orchestra che il suono trasmesso in streaming rende molto presente e dettagliata . Ne escono un poco deprivati di fascino i momenti ben noti del grande terzetto «Soave sia il vento», dei duetti, e persino delle grandi “arie di furore” come lo straordinario «Come scoglio» o come «Smanie implacabili», come se il direttore lasciasse in questi ultimi casi a Fiordiligi e a Dorabella la totale responsabilità delle scelte di carattere. Si è però avuta l’impressione che la trasmissione in streaming abbia migliorato di molto certe asperità e ineguaglianze che abbiamo visto in qualche caso colpire negativamente alcuni spettatori/critici presenti in teatro.
I protagonisti vocali, quando ne avevano l’autorità, imponevano quindi una loro più corretta visione dei ruoli rispetto all’indirizzo proposto dal direttore. E ciò è avvenuto soprattutto con la Fiordiligi di Eleonora Buratto, a volte fin troppo autoritaria e matronale e forse fin troppo dedicata ad affrontare (molto bene) le asperità vocali cui doveva far fronte. Eccellente era il suo “Come scoglio”, e inaspettatamente dolce il “Per pietà ben mio”. Emily D’Angelo era una Dorabella che sfigura un poco a fianco della sorella, ma si è fatta in ogni caso valere attraverso mezzi vocali e interpretativi non certo di secondaria importanza. Federica Guida seguiva le linee della visione più tradizionale del ruolo di “Despinetta” ma ha assolto in maniera più che lusinghiera al proprio ruolo, anche se non è da lodare la sua scelta di indugiare nei “birignao” che una volta accompagnavano la trasformazione del personaggio nel ricoprire il ruolo accessorio di notaio o di medico. Alessio Arduini impersonava un Guglielmo partecipe e convincente non solamente dal punto di vista scenico, mentre Bogdan Volkov – Ferrando – si presentava soprattutto all’inizio come un compagno giocherellone che sembrava avere poca nozione di ciò che stava succedendo. Non fascinoso ma pur sempre corretto era il suo canto nell’ “aura amorosa” ma molto più convincente è stato Volkov nel secondo atto. Pietro Spagnoli è sembrato un Don Alfonso corretto ma non sempre perfetto in un ruolo che richiede un approfondimento psicologico di difficilissima realizzazione (e una conseguente duttilità e varietà vocale).
Fin troppo invasiva e inventiva la realizzazione del continuo nei recitativi da parte del fortista James Vaughan e del cellista Simone Groppo, responsabili peraltro di un gustoso accompagnamento per l’uscita di scena dei protagonisti alla fine di entrambi gli atti. La ripresa audio non ha potuto purtroppo isolare gli interventi del suggeritore, che si ascoltavano chiari e netti come succedeva in tante riprese dal vivo di recite storiche di un tempo.