di Monika Prusak foto © Rosellina Garbo
Ogni produzione teatrale, che sia di una piccola compagnia o di una fondazione lirico-sinfonica, segna il compimento di un progetto che accomuna diverse figure artistiche e coinvolge numerosi professionisti. È il sogno comune di chi vede nella musica un importante veicolo di cultura e conoscenza, pari a quello della letteratura e delle arti visive. Oggi questo sogno infranto è giunto al crepuscolo. Il lungo periodo di chiusura, dettato dall’incerta situazione pandemica, ci ha costretti a rimanere isolati e spesso disperati. Ci ha costretti a lavorare a distanza e a studiare davanti al freddo schermo di un computer, di un cellulare o di un tablet, nei casi meno fortunati a sognare di studiare, in quelli più sfortunati alla rassegnazione.
In un panorama solo apparentemente privo di vita una nuova vena ha iniziato a pervadere il mondo dello spettacolo dal vivo. Ecco che dai freddi schermi ha cominciato a risuonare musica, nuovi progetti e sorrisi inediti. Ci siamo ritrovati senza pretese, con il fine di regalare un momento di sollievo. L’organizzazione degli spettacoli in diretta richiede ancora più sforzo, ma è uno sforzo che vale la pena sostenere per nutrire la speranza di rivederci presto in teatro. La produzione inaugurativa 2021 del Teatro Massimo, Il crepuscolo dei sogni, che rientra nel progetto Anfols “Aperti, nonostante tutto”, ha visto tra gli addetti ai lavori il direttore Omer Meir Wellber, il regista Johannes Erath (che insieme all’assistente Lorenzo Nencini ha curato anche la drammaturgia, le scene , i costumi e le luci), i coreografi Davide Bombana e Ugo Ranieri, i maestri di coro Ciro Visco e Salvatore Punturo per il Coro di voci bianche, Bibi Abel agli effetti video, Manfredi Clemente per il sound design e la regia sonora, Gery Palazzotto, ideatore e coordinatore televisivo, e Antonio Di Giovanni alla regia televisiva.
Lo spettacolo “non spettacolo”, come lo ha chiamato il direttore musicale del Teatro Massimo Omer Meir Wellber, l’opera site-specific del regista tedesco Johannes Erath, colpisce per l’atmosfera onirica e la profondità delle immagini, unite a un cast di notevole bravura vocale e scenica e idee drammaturgiche e sceniche trascinanti. Gli interpreti di questo singolare “concerto” il soprano Carmen Giannattanasio, il baritono Markus Werba e il basso Alexandros Stavrakakis, sono chiusi in teatro al buio, quasi soffocati. Vagano per lo spazio vuoto della platea, dove da alcuni mesi non c’è più nessuna sedia per consentire il distanziamento dei componenti dell’orchestra e del coro. Le uniche finestre sul mondo sono gli schermi sparsi nello spazio, alcuni coperti da uno spesso strato di nuvole di neve, e gli specchi, che non offrono che dei brevi ma profondi momenti introspettivi. Ci sono anche loro, gli orchestrali, che entrano in modo impercettibile per dare un contributo allo spettacolo allo stesso livello dei protagonisti. Il coro si esprime dai palchi in “eterna armonia”, rendendo l’immagine finale del teatro illuminato di una bellezza travolgente.
Apparentemente non succede niente. Siamo immersi in una staticità beckettiana con un senso di morte nell’aria, non quella fisica ma interiore. Assistiamo ai momenti di convivenza violenta di una coppia e a quelli intimi di lei: è una Dido rassegnata al suolo, una Violetta Valery del lockdown. Come tutta l’atmosfera, anche la protagonista verdiana sembra un lontano ricordo stravolto e sbiadito, la sua parrucca è rosa e sfatta, è sola davanti allo specchio da trucco con una bottiglia di vino pronta a “salvarla”. Il basso è un Mefistofele convincente: nel suo palchetto illuminato di rosso da il via a una serie di effetti video interessanti. La musica giunge da diverse fonti, il suono e le immagini si trasformano. Gli effetti sonori accompagnano il Preludio iniziale verdiano suonato alla fisarmonica da Omer Meir Wellber, che tornerà durante lo spettacolo in veste di pianista e abile cantante. Gli interpreti ci portano in un viaggio-non-viaggio nel tempo dal Barocco al Novecento con dei leitmotiv ben definiti: l’inverno, il crepuscolo, la morte e l’attesa di un nuovo giorno. Tra i brani risuonano Purcell, R. Strauss, Haydn, Boito, Beethoven, Heymann, Schubert, Rossini, Korngold, Musorgskij, e il già nominato Verdi, con il tocco commemorativo della composizione klezmer di Chava Albertstein. Quelli che rimangono maggiormente impressi sono il lamento di Didone, cantato da Carmen Giannattanasio all’inizio dello spettacolo mentre abbraccia uno schermo, e il Dies Irae dalla Messa da Requiem di Verdi, interpretato dal Corpo di ballo del Teatro Massimo con la coreografia di Davide Bombana. «Quando sarò deposta nella terra.. ricordati di me»: ripete la cantante con senso di rassegnazione e il tono grave. Le riprese da vicino rendono lo spettatore partecipe dell’azione: la protagonista ci guarda intrappolandoci in uno dei suoi schermi. Per circa 90 minuti rimaniamo rapiti dal succedersi delle immagini in attesa di un segno di speranza, che arriva finalmente con le note amorose di Monteverdi, accompagnate un’altra volta dalla fisarmonica di Wellber. Il cerchio si chiude: il dolore, la solitudine e la rassegnazione cedono il passo all’amore. Perché come diceva Gerhard Richter citato da Johannes Erath nel programma di sala: “L’arte è la più alta forma di speranza”. Attendiamo di poter tornare al più presto a goderne in presenza.