di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
In presenza in teatro il giorno diciannove febbraio e a partire dallo streaming televisivo della sera successiva, si è potuto questa volta assistere alla Scala a un titolo famosissimo, Salome di Richard Strauss, che doveva andare in scena lo scorso anno a marzo, che doveva essere finalmente rappresentata in questi giorni sotto la direzione di Zubin Mehta, e che è finalmente stata registrata in teatro appunto tra il 19 e il 20 sotto la direzione di Riccardo Chailly, la regia di Damiano Michieletto e le scene di Paolo Fantin. Lo streaming televisivo su Rai5 di sabato venti febbraio non era quindi un “live” in tutti i sensi, ma il particolare in questo caso era di scarso rilievo perché più che al brivido della “prima” si è voluto giustamente preferire la messa a punto di uno spettacolo estremamente complesso sia dal punto di vista musicale che da quello dell’allestimento.
Quali sono le caratteristiche principali della messa in scena di Michieletto e Fantin? Il regista insiste all’inizio sull’aspetto genealogico dei rapporti tra i protagonisti (con tanto di albero visualizzato dallo scenografo Paolo Fantin) a ricordarci come una trama neanche troppo sottile leghi Salome, figlia di Erode Filippo, al patrigno Erode Antipa, colui che Filippo fece uccidere a gettare nella famosa cisterna, qui onnipresente al centro della scena. Parlare di “tema della famiglia” ci è sembrato piuttosto fuori luogo, se non altro perché quel tema è davvero caro a Strauss, che lo riprende, e nel significato più positivo del termine, in tanti suoi lavori (Intermezzo e la Sinfonia Domestica per citarne solamente un paio). Famiglia terribile, comunque, quella che va in scena, dove gli odi nascosti e sopiti per tanto tempo fanno a gara con quelli che innerveranno l’altro capolavoro straussiano, Elektra. Nullo è in scena il rapporto tra Salome e la madre Erodiade, mentre figura onnipresente è il Paggio di Erodiade, che sembra vegliare sulla protagonista dall’inizio alla fine.
La scena ideata da Paolo Fantin è molto semplice e caratterizzata dalla contrapposizione tra pareti nere e fondo bianco (il “Wie schwarz” citato da Salome nell’additare l’ampia cisterna dalla bocca circolare). La cisterna si aprirà al momento opportuno quando emergerà la figura del profeta Jochanaan (ossia Giovanni Battista), in un clima teso all’inverosimile e preceduto dalla comparsa di cinque angeli della morte dalle ali nere e dalla nera maschera che copre gli occhi . La superficie della cisterna è ora ricoperta da una fanghiglia nera che imbratta tutti coloro che ne rimangono invischiati e che sembra illustrare la visione che Salome ha di Jochanaan, veicolo di sporcizia e malattia (“il corpo di un lebbroso … un muro calcinato dove gli scorpioni hanno fatto il nido” secondo la vivida traduzione di Quirino Principe). Le inquietudini – a dir poco – del rapporto tra Salome, Jochanaan e Erode vengono ovviamente lette in chiave psicoanalitica, tema questo ben noto e assimilabile allo sviluppo delle teorie freudiane proprie di quegli anni. Nella sala da pranzo del palazzo di Erode, il medesimo indossa un vestito gessato che di solito nella costumistica teatrale viene abbinato ai personaggi “cattivi” (leggi i gangster), e fin qui nulla di nuovo. Nazareni e Giudei indossano eleganti smoking ma nella animata discussione sulla venuta del Salvatore si rotolano nella fanghiglia che continua a imbrattare la botola ove è custodito Jochanaan. Una pesante sfera (la “luna nera”) viene calata dall’alto e fatta ondeggiare mentre si ode la voce di Jochanaan che continua a declamare le sue profezie di sventura. Nella famosa danza dei sette veli la giovane controfigura di Salome si avvicina a Erode e gli porge una maschera. Erode conduce fuori scena la bimba e lì si consumerà il più che probabile incesto. La vera Salome resta sola e viene violentata da sei uomini (non sette come si è letto), sei repliche di Erode, come lui vestiti e anch’essi mascherati. Una visione del famoso luogo dell’opera, dunque, completamente dissimile dal momento orgiastico di seduzione che comunemente viene abbinato a questo intermezzo centrale del capolavoro straussiano. Salome indossa una veste bianca (il colore del sacrificio e un dettaglio di costume che tutti i conoscitori di certe messe in scena di Madama Butterfly hanno bene in mente) che si prolunga in mille rivoli di sangue. È il momento della scena della richiesta da parte di Salome della “testa di Jochanaan”, spalleggiata da Erodiade (è l’unico momento di macabro avvicinamento tra madre e figlia). Qui la bravissima protagonista, Elena Stikhina, non ha replicato i virtuosismi di molte sue famose colleghe del passato, che nelle molteplici ripetizioni del nome del profeta esibivano una estensione vocale dall’acuto al grave che è la caratteristica principale di questo luogo musicale. A decapitazione avvenuta, l’ascesa della testa mozzata del profeta avviene in maniera piuttosto singolare: l’effige in gesso bianco dell’assassinato – che ricorda un calco settecentesco – è contenuta al centro di uno splendente ostensorio barocco. Questo era uno dei numerosi i richiami scenici citati da Michieletto e Fantin, dalla Salome di Moreau, al Perseo di Cellini. Di lì in poi il sangue scorre a fiumi e imbratta il corpo della protagonista, che nella scena finale si abbevera a lungo dello stesso. L’uccisione di Salome da parte delle guardie su ordine di Erode non viene illustrata.
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Un bel silenzio è stato definito da Michieletto, intervistato in televisione al termine dell’esecuzione, quello che ha seguito la fine dell’opera senza la presenza del pubblico. I protagonisti sono poi stati sistemati sul palcoscenico per la consueta immagine corale dei ringraziamenti, che in quest’epoca di streaming a teatro vuoto risultano particolarmente deprimenti anche se necessari. Lo spettacolo ideato da Michieletto e Fantin, con la collaborazione essenziale dei costumi di Carla Teti, delle luci di Alessandro Carletti e delle coreografie di Thomas Wilhelm, è apparso indovinato e soprattutto “pensato”, al di là dei singoli particolari palpabili, e questo è sicuramente un pregio e una indicazione che sta alla base di un teatro vivo e intelligente. Non parlerei però di un allestimento del tutto innovativo come forse si è voluto sottolineare nelle presentazioni di questo evento. Del resto, in questo come in tanti altri casi nel teatro d’opera ma anche nell’esecuzione musicale tout court, cosa ci può essere di estremamente innovativo nella ripetizione di testi che tengono banco da più di cento anni?
La compagnia di canto tutta ha assolto perfettamente il proprio compito, con una particolare menzione per i protagonisti assoluti: la Stikhina, a parte il dettaglio dello “Jocha-na-a-an”, è stata interprete sensibilissima e dotata di uno strumento pregevole. Non ha avuto difficoltà nel districarsi tra le mille difficoltà del proprio ruolo, aggravate dalle richieste di regìa e – come per tutti del resto – dalle sfavorevoli condizioni di vita in teatro ai tempi del covid. Wolfgang Koch ha voce potente e aspetto dominante, caratteristiche sufficienti a delineare uno Jochanaan di pregio. Gerhard Siegel non ha forse sottolineato a sufficienza le nevrosi del personaggio ma si è mosso con sicurezza in una parte vocale anch’essa impervia, e lo stesso dicasi per la imponente Erodiade di Linda Watson. Fin troppo sopra le righe il Narraboth di Attilio Glase, che avremmo voluto innamorato più ingenuo e fin dall’inizio pronto al sacrificio. Brava Lioba Braun a sostenere anche scenicamente per tutto il corso dell’opera il ruolo del Paggio.
La concertazione e direzione di Riccardo Chailly è sembrata di livello altissimo e in teatro ha beneficiato di un particolare accorgimento nella disposizione dell’orchestra, che occupava quasi tutta la platea. Il lavoro preparatorio compiuto da Chailly sulla difficilissima partitura straussiana è sotto gli occhi di tutti. In genere non si loda mai a sufficienza il pregio di una esecuzione in forma di concerto, che permette (quando ovviamente c’è sul podio un grande professionista e un artista sensibile a una partitura di questo calibro) di cogliere mille particolari che sfuggono quando si ascolta il suono che proviene dall’orchestra in buca. Il si bemolle sforzato e ripetuto che il contrabbasso intona a commento della decapitazione di Jochanaan è finalmente risuonato con la terribile chiarezza che si può ascoltare di solito solamente attraverso una incisione discografica. Si tratta di un particolare geniale della drammaturgia straussiana, ripetuto di lì a poco nel momento dell’uccisione di Egisto da parte di Oreste in Elektra. Dire che il risultato dell’esecuzione dell’altra sera è stato molto simile a quello di una esecuzione in forma di concerto è davvero un complimento, anche perché la realtà dei fatti era ben diversa: in questo caso Chailly ha dovuto fronteggiare le difficoltà di dominio di una disposizione tra strumenti e compagnia di canto tra le più astruse e difficili da gestire che si possano immaginare. Non sappiamo in grazia di quale misteriosa virtù Chailly abbia potuto raggiungere un risultato simile in queste condizioni del tutto anomale. Ma oltre all’eccellenza tecnica, conseguita grazie a un’orchestra paticolarmente partecipe, si è ammirato anche il raggiungimento da parte di Chailly di una coesione formale lungo tutto l’arco della partitura e si è percepita la sua evidente, viscerale ammirazione nei confronti del capolavoro straussiano. L’avere potuto seguire nei dettagli il gesto del direttore in teatro, particolare che purtroppo per ovvie ragioni non è stato possibile ritrovare nella realizzazione televisiva, ha fatto ancora una volta pensare a quanti differenti punti di vista occorrerebbe poter disporre per godere appieno di tutti gli aspetti di una simile produzione.