di Luca Chierici
Non aveva forse avuto tutti i torti la direzione del Teatro alla Scala nel ritardare l’ingresso dell’Adriana Lecouvreur di Cilea nella propria programmazione, un ritardo che sfiorava i trent’anni dalla prima di un titolo che dal 1902 era entrato subito nelle grazie di un pubblico avvinto da una trama confezionata apposta per scatenare le emozioni di più facile portata.
Un’opera che secondo il vecchio Magni Dufflocq «trovò nuovi consensi ma non entusiasmo, perché le manca l’impeto … un’opera di non ben definito partito estetico … troppo timida per entrare nel novero delle opere di nuovo stile, non abbastanza ricca per schierarsi tra le discendenti del travolgente romanticismo verdiano». Si, perché, ad esempio, al confronto della illustrazione degli ultimi istanti di Violetta (ma anche di quelli di Mimì !), momenti di teatro in musica che ancora oggi qualche istante di commozione vera riescono a procurarla, qui la morte della protagonista per sniffamento di viole avvelenate è tirata non poco in lungo, e tutta l’opera risulta essere composta da una serie limitata di leitmotiv, indovinati quanto si vuole ma che insistono fino alla nausea lungo un percorso di oltre due ore di musica. E non dimentichiamo che quello che è considerato il capolavoro di Cilea venne messo in scena nello stesso momento in cui compariva il Pélleas di Debussy (!). La cronaca delle rappresentazioni del titolo alla Scala la dice poi lunga sul valore di un’opera che diventa memorabile solamente se interpretata (o sovra-interpretata?) da protagonisti che si chiamano Mafalda Favero, Giulietta Simionato, Renata Tebaldi, Mirella Freni, Giuseppe Di Stefano, Magda Olivero, Fiorenza Cossotto, salvo ricadere nel semi-anonimato qualora i cantanti si limitino ad eseguire ciò che è scritto in partitura.
Valeva la pena riproporre il titolo alla Scala, oltretutto in un allestimento più che datato e in coproduzione con ben cinque teatri famosi? Probabilmente no, se si pensa a quanto repertorio ci sarebbe ancora da mettere in scena o da recuperare. E la proposta attuale, per attirare l’attenzione, ha avuto anche la “fortuna” di capitare nel bel mezzo di una tragica querelle che ha visto protagonisti Gergiev e la Netrebko nel contesto dell’attuale sciagurata guerra. Per fortuna gli interpreti se la sono cavata bene e hanno riscosso un successo di pubblico non indifferente. Con una Maria Agresta che almeno dal punto di vista vocale si è impegnata con coraggio e valore, affiancata da uno Yusif Eyvazov squillante e appassionato e da un Alessandro Corbelli, Michonnet, che forse era l’unico vero interprete della compagnia, pur con tutti i limiti di una vocalità sulla quale pesano gli anni. Si tace di Anita Rachvelishvili, Principessa di Bouillon, che soffriva dei postumi di una recente maternità e che addirittura non si è presentata con il resto della compagnia a ricevere gli applausi corali al termine della recita. Buoni i comprimari, un plauso al coro preparato da Malazzi, e più che lodevole l’impegno e il risultato della bacchetta di Giampaolo Bisanti, che si trovava nel difficile ruolo di successore di direttori quali Gavazzeni e Votto, a loro volta interpreti storici del titolo. Una volta tanto, una regìa e una scenografia (intelligenti) dei nostri tempi sarebbe stata auspicabile per un soggetto sufficientemente noto per la sua parziale storicità, anche se difficile da seguire nei dettagli di gelosie, bigliettini compiacenti, sottintesi, giochi a nascondino, intermezzi danzanti e via dicendo. Come già detto, l’allestimento denuncia anch’esso i suoi anni. David McVicar, regista, Charles Edwards, scenografo, Brigitte Reiffenstuel, costumista, lavorano a uno spettacolo che è apparso privo di interesse nella sua prevedibile illustrazione del soggetto ma che è stato del tutto funzionale per il gusto di gran parte del pubblico.