di Luca Chierici
Una nuova produzione del capolavoro di Strauss sul palcoscenico della Scala contraddice oramai la un tempo scarsa frequentazione di Ariadne auf Naxos nel nostro teatro, un titolo giunto qui per la prima volta solamente nel 1950. Anzi, negli ultimi tempi si è assistito a una proliferazione di appuntamenti che non fa che confermare la popolarità di quest’opera deliziosa ancorché sulla carta complicatissima, almeno per ciò che riguarda il testo di Hofmannsthal che ne sottintende le vicende intricate.
L’edizione presente è stata ereditata dalla Wiener Staatsoper e dal Festival di Salisburgo (dove era stata messa in scena nel 2012), ma solamente tre anni fa la Scala aveva ospitato una produzione originale diretta da Franz Welser-Möst per la regìa di Frederic Wake-Walker, con un cast del quale si sono conservate oggi le ottime presenze di Krassimira Stoyanova (Arianna) e di Markus Werba (Il maestro di musica). Mentre la regìa di Wake-Walker era apparsa oltremodo prevaricante nei confronti del perfetto meccanismo ad orologeria messo a punto da librettista e compositore, con l’apporto di Sven-Eric Bechtolf (regìa ripresa da Karin Voykowitsch) abbiamo sperimentato il piacere di una serie di idee nuove che non intralciavano per nulla l’andamento del soggetto. Anzi contrappuntavano felicemente lo svolgimento del lavoro cogliendo i suggerimenti neppure tanto vagamente satirici che sottintendono il pastiche indovinato dagli autori a partire dal connubio tra classicità e avanguardia.
Bechtolf, e con lui lo scenografo Rolf Glittenberg, ha ripreso i luoghi tipici del titolo per ciò che riguardava il pretenzioso Palazzo del committente dell’insolito spettacolo, trasformando poi la grotta di Arianna, vista dai (pochi) spettatori del teatrino di corte, in uno spazio dove, al posto delle rocce dell’isola di Nasso, campeggiavano diversi pianoforti a coda male in arnese, svuotati, capovolti, che permettevano acrobatici movimenti ai protagonisti, già impegnati in acrobatiche peripezie vocali. Insomma un commento registico e scenico che una volta tanto arricchiva la narrazione degli avvenimenti in maniera intelligente, anche con l’ausilio dei divertenti costumi di Marianne Glittenberg. La concertazione e direzione di Michael Boder avrebbe potuto puntare su una maggiore vivacità, soprattutto sostenendo con tempi più mossi la lunga scena d’amore tra Arianna e Bacco, che è parsa interminabile. Ma tutto sommato Boder si è mantenuto su un buon livello di routine per un titolo che, non dimentichiamolo, non è oggi così difficile da affrontare dopo i numerosi esempi precedenti illustrati da direttori di grande levatura che per primi si erano trovati di fronte a una partitura di eccezionale raffinatezza.
La Stoyanova ha approfondito ulteriormente la psicologia dell’ Arianna abbandonata, opponendo alle arlecchinate delle maschere un contegno fin troppo serioso che alla fine esplode in quell’incredibile scioglimento amoroso tra le braccia del giovane (?) Bacchus. Vocalmente perfetta, si è contrapposta agli equilibrismi del nuovo compagno che notoriamente affronta una parte in tessitura alta che ha mietuto nel tempo molte vittime anche illustri. Stephen Gould non è stato così poco intonato e stanco come qualche critico ha sottolineato e se l’è cavata molto bene in un ruolo che è a dir poco ingrato. La Zerbinetta di Erin Morley era virtuosa e piccante quanto basta anche se forse non faceva dimenticare la Gruberova dei bei tempi salisburghesi e poi scaligeri, per non parlare di una Alda Noni appartenente al mito. Al medesimo livello delle recite di tre anni fa era il bravissimo Markus Werba, che conferiva al ruolo del Maestro di Musica un rilievo non così scontato.
Ma la sorpresa maggiore è derivata dal Komponist di Sophie Koch, ruolo dal quale il mezzosoprano ha cavato tutte le sfaccettature di disperazione e di giusto orgoglio per il proprio lavoro drammatico così deturpato che sono richieste a una interprete di intelligente musicalità. Ma sorpresa e ammirazione si sono alternate anche per il quartetto delle maschere, nel quale svettava l’Harlekin di Samuel Hassehorn, impressionante anche dal punto di vista scenico e vocalmente notevole. Bravi tutti i comprimari e brave le tre ninfe che facevano a tratti pensare a una riedizione straussiana delle tre figlie del Reno o delle tre Dame mozartiane in contesti teatrali più lontani nel tempo. Perfettamente a proprio agio nel ruolo parlato del Maggiordomo era Gregor Bloéb, che per gli spettatori scaligeri non ha fatto dimenticare la recente apparizione in scena dell’ex Sovrintendente Pereira.