di Monika Prusak
Ritorna al Teatro Massimo la Tosca del regista argentino Mario Pontiggia, che debuttò nel lontano 2008 al festival “Recondita armonia” del Maggio Musicale Fiorentino, già presentata a Palermo nelle Stagioni 2014 e 2017.
Lo spettacolo dal taglio nettamente tradizionale riporta in una Roma del 1800, negli ambienti indicati dal libretto originale: tra l’altare imponente della Basilica di Sant’Andrea della Valle con immagine minuziosamente dettagliata della cupola, le camere sfarzose di Palazzo Farnese fino a Castel Sant’Angelo con la veduta mozzafiato della Basilica di San Pietro. Le scene di Francesco Zito sono talmente realistiche da ipnotizzare lo spettatore per tutta la durata dell’opera in un’esperienza artistica e musicale a 360 gradi. Tuttavia, la bellezza visiva non si ferma sul versante scenografico: i costumi progettati da Zito riempiono le scene con dovuta eleganza. Si nota la predilezione per i timbri cupi negli interni su cui far brillare alcune macchie di colori intensi: dal rosso profondo con oro luminoso degli abiti ecclesiastici al nero scintillante di quelli della folla, fino agli abiti della protagonista: un verde acceso sfavillante nel primo atto, un bordeaux tendente al vinaccia nella scena di uccisione di Scarpia, e infine un blu profondo nel tragico finale. In perfetta armonia le luci di Bruno Ciulli giocano tra il soffuso dei momenti più intimi e le intensità più rilevanti nei momenti di maggiore sfarzo, sapendo cogliere e riflettere la luminosità propria dei tessuti pregiati del vestiario.
Mario Pontiggia tratta la recitazione lirica con la consueta precisione, tirando fuori da ogni personaggio i tratti distintivi di carattere e temperamento. L’azione scenica rimane sempre fedele all’approccio tradizionalista: il regista punta sulla grandiosità delle scene collettive da una parte e sulla più accentuata intimità dei momenti più raccolti dall’altra. Cavaradossi di Fabio Sartori è dotato di una voce calda e intensa, che incanta nella più delicata «Recondita armonia», ma non raggiunge l’aspettato slancio dinamico ed emotivo in «Lucevan le stelle». Anna Pirozzi affronta con grande successo l’esigente scrittura pucciniana. La sua voce manca a tratti di morbidezza, ma ritrae bene la donna forte e coraggiosa che preferisce macchiarsi di sangue, piuttosto che cedere alle violenze maschili. La sua interpretazione è tecnicamente ineccepibile in tutti i registri, potente e ricca di sfumature; la cantante si muove con grande naturalezza fino all’ultimo salto suicida da Castel Sant’Angelo. Rimane impresso il penetrante acuto sulla parola “lama”, eseguito con assoluta maestria e perfetta intonazione, mentre l’unica pecca risulta la poca liricità in «Vissi d’arte», che avrebbe avuto bisogno di maggiore tenerezza e calore. Tra i tre protagonisti è Scarpia quello riuscito in ogni dettaglio. Il cantante mongolo, Amartuvshin Enkhbat, dotato di eccellente pronuncia italiana, presenta un barone distinto e possessivo, senza veli, alla ricerca del piacere carnale esplicitamente fine a sé stesso. Il dialogo tra Scarpia e Tosca trascina lo spettatore in un turbine emotivo ad alto livello: i due si inseguono fino a quando l’unica soluzione plausibile diventa quella lama, che brilla sulla scrivania del barone. La scena dell’omicidio è un momento catartico: non ci sono dubbi che sia l’unica via percorribile per una Tosca stanca e oppressa. Sono state ben assortite anche le voci dei personaggi secondari Cesare Angelotti di Gabriele Sagona, Il sagrestano di Matteo Peirone, Spoletta di Massimiliano Chiarolla, nonché Sciarrone e Un carceriere rispettivamente di Italo Proferisce e Alessio Gatto Goldstein. Una nota va ad Anna Costa, che ha interpretato con una voce bianca naturale e toccante il personaggio di Un pastore fuori scena.
La concertazione di Valerio Galli ha uno slancio passionale. Il direttore d’orchestra toscano lavora in maniera incessante sui timbri, sulle dinamiche e sui tempi, offrendo un sostegno fermo ed efficace a quanto accade sul palcoscenico. Suscita qualche dubbio, persino nel pubblico, risultando antiquata, la scelta di bissare le due arie più famose dell’opera, che tende a rallentare l’azione scenica. Il cast è completato dal Coro del Teatro Massimo di Ciro Visco e dal Coro di voci bianche di Salvatore Punturo, entrambi in ottima forma scenica e vocale.