di Cesare Galla
I crociati di oggi sono donne e uomini armati fino ai denti, preferibilmente con armi semi-automatiche, perlopiù vestiti di bianco come infermieri, che si radunano in una sorta di capannone, un opprimente parallelepipedo dalle alte e nude pareti di cemento armato.
Ogni tanto le pareti si scostano leggermente e disegnano una feritoia, oppure una grande croce. Alla fine, la scena al Santo Sepolcro presenta al centro un minimarket che vende kebab, come ce ne sono tanti nelle nostre città. Il saccheggio è inesorabile, corredato da violenze varie, incluso un “waterboarding” realizzato utilizzando una bacinella di plastica. E il cadavere della povera vittima resta lì, mentre intorno si festeggia la vittoria.
Attualizzare un’opera come I Lombardi alla prima crociata è faccenda complessa, che incrocia problematiche anche spinose nel tormentato rapporto fra cristiani e islamici, dal secolo XI a oggi. E d’altra parte, la storica partecipazione dei cittadini lombardi alla Prima Crociata è solo uno dei dispositivi narrativi che s’intrecciano nel quarto melodramma di Verdi, su libretto di Temistocle Solera (dal poema omonimo di Tommaso Grossi), andato in scena alla Scala nel 1843.
Anzi, il filone principale della storia è quello che riguarda l’insanabile odio tra due fratelli, che nasce per una rivalità amorosa (entrambi innamorati della stessa donna), si sviluppa con una finta riconciliazione e ha una brusca e violenta svolta quando il cattivo dei due, lungi dal cercare la pace, torna per ammazzare il fratello ma sbaglia bersaglio e uccide il padre… Seguirà eremitaggio di espiazione – vedi caso proprio dalle parti di Gerusalemme, ma la caverna del libretto diventa un vecchio fuoristrada – e percorso verso una qualche forma di saggezza, se non di santità. Con un ruolo molto importante, sotto smentite spoglie fino allo svelamento conclusivo, nelle vicende che si consumano nei pressi del Santo Sepolcro.
Quei due fratelli sono come Caino e Abele, è la tesi dello spettacolo in scena alla Fenice, peraltro dichiarata con proiezione di adeguate scritte. Dopodiché, non bastassero i fratelli che agiscono nella vicenda, il pubblico se li trova anche in versione “simbolica”: ancora prima dell’inizio si vedono due bambini che giocano insieme in mezzo alla scena; poi i bambini compaiono separati (uno fra i cristiani, l’altro fra gli “infedeli”) e infine si ritrovano giovani adulti, intenti a giochi non proprio innocenti vestiti solo delle mutande. Giochi che finiscono molto male, perché ovviamente uno dei due ci rimette le penne. Quest’ultima scenetta avviene mentre l’orchestra suona la pagina più singolare della partitura verdiana, quella sorta di sintetico Concerto per violino “alla Paganini” che introduce il finale del terzo atto.
Non per caso i Lombardi appartengono alle rarità verdiane. La partitura di Verdi, servita – si fa per dire – da un libretto farraginoso e irrisolto, fatto di situazioni e non di sviluppi drammatici, non è priva di improvvise “rivelazioni”, che nascono spesso dalla volontà di andare oltre le coordinate formali di tradizione (il citato inserto strumentale, il quintetto introduttivo del primo atto, qualche dettaglio negli accompagnamenti). Essa però concede ancora molto alla più vieta esaltazione cabalettistica, non trova quasi mai l’exploit melodico – eccezion fatta per il troppo citato coro “O Signore, dal tetto natio” nel quarto atto – e fatica ad andare oltre la ruvidità delle onnipresenti scansioni ritmiche bandistiche a mo’ di marcia.
Un’opera minore, insomma, non sorprendente data la sua collocazione fra due capolavori “in nuce” come Nabucco ed Ernani. Un’opera ingrata anche da mettere in scena, per la quale servirebbero idee ben altrimenti convincenti di quelle messe in vetrina alla Fenice dal regista Valentino Villa (scene di Massimo Cecchetto, costumi di Elena Cicorella, luci di Fabio Barettin, movimenti coreografici di Marco Angelilli). A conti fatti, lo spettacolo ha molte pretese ma non altrettanta efficacia, il suo incrocio fra realismo attualizzato e simbolismo vorrebbe essere di rottura ma non incide davvero, anche perché i cantanti in scena si muovono e recitano quasi “all’antica italiana”, mentre intorno a loro non sempre appare efficace la disposizione delle masse corali. Masse peraltro indispensabili, perché la quasi onnipresenza del coro è uno degli elementi di maggiore interesse di una partitura in questo singolarmente vicina ai modi del grand-opéra alla francese. E infatti non fu per caso che dai Lombardi partì Verdi per il suo debutto parigino nel 1847 con Jerusalem.
Per dare l’idea di quanto I Lombardi alla prima crociata siano lontani dal repertorio, basterà dire che l’attuale proposta della Fenice – scena verdiana per eccellenza – è giunta dopo un’assenza di 178 anni: l’ultima volta risaliva al 1844. Una prima esecuzione in tempi moderni, quindi, “nobilitata” dal fatto che per la prima volta è stata eseguita la partitura secondo la recente edizione critica a cura di David R.B. Kimbell.
Sul podio è salito Sebastiano Rolli, che ha maneggiato con energia e ricchezza di suono il poco rifinito materiale musicale verdiano, senza cercare sottigliezze che sarebbero state inappropriate e puntando invece con una certa efficacia a rendere il clima espressivo energico e trascinante delineato dal compositore. Sulla stessa linea si è attestata una compagnia di canto nell’insieme positiva. Nei panni di Pagano (il fratello-eremita) c’era il basso Michele Pertusi, una garanzia di appropriato stile verdiano, che ha proposto una linea di canto densa ed espressiva. Suo fratello Arvino aveva la voce ben controllata del tenore Antonio Corianò, mentre Antonio Poli, nel ruolo dell’islamico Oronte, innamorato della figlia di Arvino e convertito in punto di morte, si è proposto con rigore e precisione, svettando bene sull’acuto e ammorbidendo come conveniva il fraseggio nelle ampie scene patetiche che lo riguardano. La parte principale, fra le voci femminili, era quella di Giselda, figlia di Arvino, pacifista ante litteram. Il soprano Roberta Mantegna l’ha risolta con sicurezza anche se non con particolari sfumature, mettendo in evidenza la buona tenuta della sua voce nella zona alta della tessitura. Bene i comprimari, con una citazione particolare per il traditore Pirro di Mattia Denti e la Viclinda (madre di Giselda) di Marianna Mappa. Completavano il cast Christian Collia, Adolfo Corrado e Barbara Massaro. Positivo, a tratti trascinante il coro istruito da Alfonso Caiani. Pubblico folto, vivo successo per tutti.