di Cesare Galla
Il pubblico che andava all’opera all’inizio del Settecento cercava intrighi amorosi o gesta eroiche ed exploit vocali. Ben distribuiti nel fascino di un genere teatrale ormai secolare che poteva anche contemplare grandi “effetti speciali” scenotecnici.
E naturalmente, attraverso narrazioni che facessero riferimento a realtà “altre”, storiche o mitiche, lontane nel tempo anche se ancora vicine nella sensibilità culturale corrente. Sul versante più leggero e sensuale, il Pigmalione di Giovanni Alberto Ristori su libretto di Francesco Passarini, scritto e rappresentato nell’autunno del 1714 a Rovigo e restituito alle scene per la prima volta in epoca moderna grazie alla produzione che ne ha ora realizzato il Teatro Sociale rodigino, ha una sua indubbia esemplarità.
Il punto di partenza è il mito classico narrato in quell’inesauribile giacimento di drammi non necessariamente a lieto fine che sono le Metamorfosi di Ovidio: uno scultore si è innamorato perdutamente della meravigliosa statua femminile che ha appena creato; la dea dell’amore, Afrodite, questa volta benigna, darà vita alla scultura, che diventa così una bellissima donna in carne ed ossa, per la felicità dell’artista. Si tratta di un soggetto che solleticherà per almeno un altro secolo vari poeti e musicisti, fra i quali spicca Rameau con il suo Acte de ballet scritto nel 1748. Per non dire che il debutto assoluto di un Donizetti non ancora ventenne, nel 1816, fu proprio con una “scena drammatica” intitolata Il Pigmalione, che peraltro ha visto la prima esecuzione solo nel 1960 a Bergamo.
Nel caso di Passarini e Ristori – il quale nel libretto viene accreditato di avere scritto la musica nel giro di una decina di giorni – la rivisitazione del mito si risolve in una favola bucolica all’insegna dell’amore con annessi e connessi: illusioni, infedeltà, menzogne, speranze deluse e alla fine ovviamente concretizzate, per quasi tutti i protagonisti della storia.
La prima rappresentazione avvenne in un teatro che oggi non esiste più, fatto edificare dal conte Marc’Antonio Manfredini sul finire del Seicento. Il contesto era piuttosto lontano da quello prevalente nella capitale della Serenissima Repubblica, di cui Rovigo e il Polesine erano estrema provincia meridionale. A Venezia, ormai da decenni si era affermato il sistema impresariale e le rappresentazioni erano pubbliche. Cioè aperte a un pubblico pagante. In questo caso, data anche la circostanza della produzione – un omaggio alla massima autorità veneziana in loco, il capitano Girolamo Trevisan, che si apprestava a tornare in patria – si può immaginare una serata destinata alla nobiltà locale, desiderosa di mettersi in luce seguendo le tendenze alla moda nella Dominante. Inevitabile comunque – probabilmente anche per motivi tecnici – la dimensione sostanzialmente “da camera” dell’opera. Non a caso, il librettista Passarini era specializzato proprio in storie con pochi personaggi, adatte a teatri di piccole dimensioni.
Quanto a Ristori, era allora un giovanotto ventunenne di belle speranze e riconosciuto talento. Nato nel 1693 a Vienna da genitori attivi come attori di giro, aveva già debuttato nel campo operistico a Padova e avuto modo di farsi notare anche a Venezia. Di più, il suo Orlando furioso, rappresentato nel 1713 al Sant’Angelo, aveva avuto un tale successo che l’impresario-musicista di quel teatro non aveva esitato a “importare” varie pagine di quella partitura in una sua opera con lo stesso titolo, mandata in scena l’anno seguente. Quell’impresario si chiamava Antonio Vivaldi.
Un anno dopo la sua puntata a Rovigo, Ristori si sarebbe trasferito a Dresda. La capitale della Sassonia sarebbe rimasta da quel 1715 il centro di un’attività a largo raggio svolta anche a Varsavia (il duca era allora anche il re di Polonia) e in qualche momento pure a Napoli – ma sempre in collegamento con la famiglia regnante. Vasta la sua produzione fino al 1753, anno della morte a Dresda, non solo nell’ambito teatrale ma anche in quello sacro e non senza incursioni in quello strumentale. Come la maggior parte della sua musica – e va sottolineata la singolarità del caso di un compositore impegnato a livello europeo che portava con sé anche le composizioni scritte nei primi anni della sua attività – il manoscritto del Pigmalione si trova negli archivi di Dresda e il suo recupero per l’esecuzione – curato da Bernardo Ticci – ha dovuto fare i conti con una conservazione non ottimale. Forse, una conseguenza dei tragici bombardamenti del 1945.
In pratica, risulta ben leggibile solo il primo atto e poco altro, mentre il resto appare dilavato e di scarsa o nulla chiarezza. Secondo una tradizionale metodologia barocca, Ticci ha quindi compiuto una complessa operazione di “importazione” di musiche da altre opere di Ristori, lavorando naturalmente sulla congruità espressiva e sulla coerenza ritmica e prosodica nel confronto fra i testi originali e quelli dai quali sono stati fatti i “prelievi”. Gli “auto-imprestiti” erano comuni a quel tempo e lo sarebbero stati a lungo (come sanno gli appassionati rossiniani): per le esigenze della prima in tempi moderni del Pigmalione, è stato fatto qualcosa del genere “dall’esterno”, ma con tutti gli accorgimenti necessari.
Dell’esecuzione si è incaricato Federico Guglielmo alla guida del suo ensemble “L’arte dell’arco” arricchito nell’occasione da alcuni allievi della classe di violino barocco di cui è titolare al conservatorio di Rovigo. Al cembalo per il continuo, Roberto Loreggian. Dall’incrocio fra la complessa ricostruzione musicologica di Ticci e l’esecuzione filologicamente avvertita di Guglielmo è sortita un’immagine musicale dell’opera giovanile di Ristori assai ben congegnata, grazie a un’articolazione che non ha fatto sentire troppe cesure o differenze di stile ed è sembrata del tutto plausibile nel sottolineare la non banale inclinazione di questo compositore per una musica dalle ben delineate sfumature strumentali. Sfumature messe bene in evidenza dallo stesso Guglielmo, che in più di qualche occasione ha imbracciato il violino per realizzare la parte solistica nell’accompagnamento. Nell’insieme, è emerso quanto il mestiere di Ristori non sia mai banale: dal patetico all’agitato e al sentimentale, la sua scrittura per le voci è adeguatamente differenziata e sempre ben delineata.
Di questa composita tavolozza è stato interprete un cast vocale di notevole livello, guidato dall’esperienza e dall’accortezza musicale del baritono Bruno Taddia, che ha proposto il personaggio di Pigmalione secondo una linea di canto franta, espressivamente mobile, quasi sempre appropriata sul piano del timbro. Intorno a lui, le due ninfe innamorate – Eburnea, che alla fine conquisterà il cuore dello scultore con uno stratagemma, essendo evitato nel libretto il passaggio della metamorfosi vera e propria della statua, e Isifile – avevano le voci stilisticamente impeccabili e musicalmente sapienti di Silvia Frigato e Marina Di Liso. Egregia la prima nella coloratura come pure nell’inflessione patetica del cantabile; interessante la seconda per l’attenzione alla parola e all’eleganza del fraseggio e per la fine trama delle variazioni nei da capo. Dei due innamorati variamente delusi dalle loro belle, affascinate da Pigmalione – vocalmente un intrigante confronto fra controtenori – ammirevole è parso in particolare Nicolò Balducci (Elviro), stella internazionale del belcanto barocco dopo la vittoria al concorso “Cesti” di Innsbruck. La sua voce è nitida, svettante, a suo agio in ogni passaggio della coloratura, capace di disegnare ogni sfumatura degli affetti che il compositore affida alla parte. Apprezzabile anche Antonio Giovannini, che ha mostrato forse qualche segno di affaticamento nella zona alta della tessitura ma si è espresso con musicalità e padronanza stilistica di assoluto livello.
Elemento fondamentale di questo riuscito recupero barocco è stato lo spettacolo firmato per la regia da Federico Bertolani (con la revisione drammaturgica di Marco Schiavon), per le scene da Matteo Corsi e per i costumi da Eleonora Nascimbeni, vincitori del concorso di scenografia intitolato a Gabbris Ferrari. La favola pastorale di Passarini e Ristori è stata restituita pensando alla sua prima assoluta, secondo una logica misuratamente metateatrale nel personaggio d’invenzione del podestà, l’attore Giulio Canestrelli, che all’inizio delle due parti dello spettacolo ne contestualizza la nascita. Tutto il resto l’hanno fatto le scene dipinte e mobili – cieli azzurri con nuvole bianche, alberi e cespugli che si spostano per nascondere o svelare i personaggi, elementi architettonici sollevati a delineare il tempo di Venere – e i ricchi costumi in accattivante stile barocco. Bertolani ha guidato tutti in una resa teatrale di ottima naturalezza, con il giusto senso di distacco da parte di ciascun interprete ma anche con la giusta adesione alla vicenda sul piano della gestualità.
Alla fine, grandi applausi per tutti i protagonisti di un progetto che nel riesumare un’opera nata a Rovigo oltre tre secoli fa ha saputo coinvolgere le realtà artistiche della città: il conservatorio come si diceva, ma anche i laboratori scenografici e sartoriali del Teatro Sociale. Come sottolineato dal giovane direttore artistico Edoardo Bottacin, questo Pigmalione è l’opera più antica mai rappresentata nello storico teatro di tradizione rodigino. Se le cose vengono fatte così, la speranza è che non ci si fermi qui.