Il capolavoro di Beethoven torna a Firenze nell’allestimento di Pier’Alli. Sotto la solida direzione di Zubin Mehta agiscono specialisti del repertorio wagneriano
di Francesco Lora
IL MAGGIO MUSICALE FIORENTINO ha ormai accantonato da anni l’obiettivo per il quale era stato fondato, ossia la riproposta di titoli importanti ma rari del repertorio operistico. Non è dunque l’originalità il punto forte dello spettacolo d’apertura del 78° festival: Fidelio di Ludwig van Beethoven, nella sua versione definitiva e corrente del 1814 (i mesi di ritardo escludono la volontà di celebrare il bicentenario) e in un allestimento già visto a Valencia nel 2006 (lo stesso che inaugurò il palcoscenico del nuovo Palau de les Arts); quattro recite dal 27 aprile al 5 maggio, nel Teatro dell’Opera, con l’abituale sciopero del personale tecnico alla “prima” e con l’abituale imbarazzante crisi di pubblico per uno spettacolo di spicco del cartellone internazionale.
Sommo sacerdote a vita dei riti operistici fiorentini, Zubin Mehta officia dal podio secondo l’usato mestiere direttoriale: non esegesi geniale ma lettura solida; archi tenuti in primo piano su legni tuttavia presenti e duttili e su ottoni altrimenti poderosissimi; fraseggio legato e posato anziché incalzante e pungente; tempi placidi e cantabili anziché precipitosi, anche ove taluni passi autorizzerebbero la foga; costante attenzione al rapporto tra voci in scena e strumenti in buca; visione dunque ariosamente turgida e tardoromantica, giammai incline all’ultimo Classicismo e allo stile Impero che ispirarono la composizione. Ciò premia l’Orchestra del MMF, oggi tra le prime tre in Italia per fulgore tecnico, tanto più che agli inconfondibili bagliori metallici si sono di recente aggiunte inedite note carezzevoli.
La visione tardoromantica motiverebbe invece un giudizio appuntito circa la formazione della compagnia di canto. Quel che accade ovunque si rinnova puntuale a Firenze: eletto per tradizione novecentesca il Fidelio a precursore storico del Wort-Ton-Drama, i suoi interpreti vocali sono oggi scelti non tra i belcantisti noti a Beethoven, avvezzi a Cherubini, Paisiello o Spontini, o soprattutto al primo Rossini, bensì tra cantanti di frequentazione soprattutto wagneriana. La fibrosa e muscolare grossezza dei mezzi si sostituisce così alla rifinita e dosata consapevolezza tecnica; sul versante attoriale, lo scavo psicologico dei caratteri e l’esempio di civiltà da ciascuno professato, a loro volta, divengono espressione realistica dell’istinto dell’uomo qualunque e non dell’eroe illuministico.
Nondimeno, la locandina fiorentina è di vaglia, e per omogeneità e valore dei singoli supera quella dell’ultimo S. Ambrogio alla Scala, anch’esso dedicato a Beethoven e al Fidelio. In più, si contano artisti di fama europea ma di rado presenti sulle scene italiane. Benvenuti sono dunque Ausrine Stundyte come Leonore e Burkhard Fritz come Florestan, soprano e tenore di forza i quali tuttavia non perdono di vista, accanto a un sovradimensionato eroismo da Walhalla, il fremito commosso della passione amorosa. Come Don Pizarro, Evgeny Nikitin è perfido e incisivo nell’accento senza scadere in un canto plateale, e ottimo contrasto gli fa Manfred Hemm, un Rocco dal canto ancora morbido e sano, adatto a variare dall’affetto paterno alla comune vigliaccheria.
Alla vivace e precisa Marzelline di Anna Virovlansky si affianca lo Jaquino piccato e decoroso di Karl Michael Ebner. Stilizzato e puntuale il Don Fernando di Eike Wilm Schulte: come dev’essere, si tratta di un caratterista affidabile in una parte di fianco, anziché di un disinvolto scialo in una parte di pregio puramente simbolico (si pensi ai Fischer-Dieskau, agli Adam, ai Quasthoff, ai Milling e ai Mattei via via “bruciati” nell’allegro cammeo). Portato in primo piano da pagine memorabili, fa bella mostra di sé anche il Coro del MMF, preparato da Lorenzo Fratini e coeso e sfumato soprattutto nelle sue sezioni maschili (a fronte di qualche stridore nei soprani: ma è l’esigente scrittura corale beethoveniana a mettere alla prova voci latine in solido appoggio).
L’allestimento scenico noleggiato a Firenze, con i suoi dieci anni sulla groppa, risulta più misurato e generico di quello visto nel festival del 2003, dove a firmare regìa, scene e costumi del Fidelio erano Robert Carsen e Radu e Miruna Robuzescu. Eppure, quella di Pier’Alli – regista, scenografo, costumista, light designer e ideatore dei video – è una lezione di stile. Nell’atto I tutto segue la didascalia con gestualità vivida, costumi d’epoca e scene in atmosfera smeraldina, soffusa e velata d’onirico. Nell’atto II, oltre la riconferma e l’avvaloramento di quanto già detto, monta in cattedra chi meglio d’ogni altro sa servirsi, a fini teatrali, del cinema proiettato sullo svolgersi dell’azione: la dolente perlustrazione delle prigioni, nel video sovrapposto al preludio iniziale, è un piccolo capolavoro di evocazione.
Lo spazio della musica, in questo orizzonte, non è tuttavia mai violato. Anziché servire da base per improbabili coreografie o amate proiezioni filmiche, l’Ouverture del Fidelio è lasciata oggetto di puro ascolto sinfonico. A sua volta la Leonore n. 3, inserita tra le ultime due mutazioni secondo la lezione di Gustav Mahler, e diretta con reverenza da Mehta, e suonata con dovizia di colori dall’orchestra, finisce massacrata non già dal regista e dal suo allestimento scenico in quanto tale, ma piuttosto da un cambio di scena dove i colpi d’arnese e il cigolante strascinamento di strutture provocano rumori noncuranti e fors’anche dolosamente compiaciuti: un altro modo di far arrivare alla platea la voce degli scioperanti?