di Attilio Piovano foto © Valeria Fioranti
Teatro Regio gremito, a Torino, la sera di lunedì 3 settembre 2018 per la serata inaugurale del festival MiTo edizione 2018, tutto concepito nel segno della danza: quale denominatore comune ad intersecare epoche, generi, autori e composizioni, secondo l’originale, apprezzato e personale imprinting del direttore artistico Nicola Campogrande. Protagonista la Royal Philharmonic Orchestra diretta dalla statunitense Marin Alsop: ricco curriculum e prestigiose collaborazioni internazionali, già alla guida della blasonata Baltimore Symphony Orchestra, dal 2007, a partire dal 2019 sarà direttore principale della ORF Radio-Symphonie Orchester Wien.
Gesto esuberante e nitido, precisione, comunicativa e capacità di tenere saldamente in pugno il governo della compagine, non difettano certo alla Alsop. In apertura ecco la trascrizione orchestrale dello schumanniano Träumerei (dalle pianistiche Kinderszenen. op. 15) che nulla ha a che vedere con la danza, ovviamente: ma che ha tuttavia propiziato la serata favorendo la concentrazione in un clima onirico di suggestiva sospensione. Lo si è ascoltato (in prima italiana) nell’orchestrazione della russa Victoria Borisova-Ollas – Campogrande incoraggia lodevolmente ed espressamente la presenza di operazioni artistiche di tal fatta entro il cartellone di MiTo – strumentazione che enfatizza ad arte la ‘sognante’ stimmung del brano, anteponendovi una sorta di zona preludiante, tutta giocata su zuccherose sonorità di celesta e liquide arpe, quasi pseudo-čajkovskjiana pasticceria musicale; orchestrazione amabile e accattivante, certo, legittimamente libera (forse addirittura con qualche mutamento armonico in un paio di passaggi, così ci è parso di cogliere all’ascolto, ma occorrerebbe verificarlo in partitura), poi prevedibilmente giocata sulla pasta effusiva degli archi, destinata a concludersi con rarefatta estenuazione, lunghe corone, raddoppi ritmici, quasi a prolungare l’irreale appeal del brano, tanto semplice e intimistico quanto sublime: che a dire il vero possiede tutto il suo fascino (anche timbrico a saperlo estrapolare col giusto tocco) già nella versione primigenia per pianoforte.
Esaurita la sua funzione incoativa, la pagina ha ceduto spazio ad un brano di repertorio tra i più amati da pubblico ed interpreti, vale a dire il Concerto per violino in re maggiore op. 35 di Čajkovskij. Ecco dunque l’entrata in scena del fuoriclasse dell’archetto Sergej Krylov, moscovita, virtuoso di eccezionale bravura e innegabile magnetismo, subentrato quasi all’ultimo, dacché non era prevista la sua presenza: avrebbe dovuto esserci infatti Julia Fischer che, a causa di una brutta bronchite, ha dovuto cancellare invece l’intera tournée. Krylov ha saputo peraltro accattivarsi l’intera platea fin dalle pagine iniziali dell’impervio Concerto. La Alsop lo ha lasciato giustamente in primo piano, tenendo l’orchestra talora perfino un poco sotto tono, ma conferendo il giusto rilievo al celeberrimo tema con le note ribattute dei fiati (buone prime parti, anche se qua e là non immuni da qualche piccolo occasionale neo). Fiato sospeso nella difficilissima cadenza che Krylov ha affrontato con indicibile souplesse, senza per nulla farsi distrarre da un telefonino che continuava per ben due volte a farsi sentire impunemente nella zona destra del teatro (richiamando perentoriamente il proprietario al suo ‘dovere’ di rispondere, perbacco, con la volgarissima suoneria simile ad un fischio da bulletto di periferia intento a richiamare l’attenzione di qualche ragazzotta, che spesso risuona sui treni, per strada ed in ogni dove: ma per favore, non a teatro). Mugugno del pubblico,solista e orchestra che proseguono invece nel regno della beatitudine čajkovskijana: ed ecco lo sciogliersi di un applauso tanto protratto quanto entusiasta già a fine primo tempo da non sembrare per nulla inopportuno nemmeno ai più seriosi puristi.
Il vero clou con il sognante Andante in grado di evocare – si sa – con struggente melanconia, le desolate lande della solitudine di Čajkovskij e del suo animo tormentato, più ancora che gli algidi paesaggi delle sue contrade. Krylov, ottimamente assecondato dalla RPO, ne ha fornito un’interpretazione ammirevole per intensità e bellezza di suono: a suggellare questa pagina dal colore smaccatamente russo con toni che raramente è dato percepire in sala da concerto. E le emozioni non sono mancate. Infine ecco la corsa a briglie sciolte del finale, dove – forse per il pochissimo tempo a disposizione per provare (o per non poter provare) – solista e orchestra talora parevano rincorrersi: occorre dire che Krylov ha imposto un tempo davvero eccitato, al fulmicotone e la Alsop ha fatto del suo meglio per mantenere all’altezza l’intera compagine. Acrobazie indicibili del solista e da ultimo una vera e propria ovazione: due bis di ordinanza, il Capriccio n. 24 di Paganini, notissimo e amato da tutti, che ha prolungato ancora l’entusiasmo del pubblico abbacinato da trilli, note filate, pizzicati e quant’altro, e infine il sublime Bach dell’Adagio dalla Sonata in sol minore a chiudere in un clima di raccolta interiorità.
A seguire e concludere la serata lo stravinskijano Uccello di fuoco eseguito nella sua interezza di balletto destinato ai mitici Ballets Russes di Djagilev, dunque non già le suites da concerto che si è soliti ascoltare in sede esecutiva, bensì la partitura completa: con luci ed ombre, beninteso, anche certe lungaggini di cui obiettivamente – absit iniuria verbis – Stravinskij stesso ch’era uomo di grande intelligenza e rabdomantica sensibilità, dovette aver sentore se s’indusse, appunto, a trarre dal balletto più concise pagine finalizzate ad una esecuzione in assenza di scene. Una bella sfida, che richiede una grande orchestra e una bacchetta di spicco. La Alsop ha centellinato la dinamica della prima, protratta e articolata parte, ottenendo rarefazioni ammirevoli, ma anche innescando qualche inevitabile zona di ristagno. Forse si sarebbe potuto lavorare più sui dettagli e sull’invenzione dei timbri; ma ecco a spazzare via le perplessità e a fugare i dubbi di chi categoricamente asserisce la necessità di eseguire in concerto solo le sacrosante suites, l’ampia sezione conclusiva dalle telluriche sonorità e dai ritmi incalzanti, giù giù sino all’apoteosi delle ultime misure, ibridate di clangori.
Vero e proprio trionfo personale per Marin Alsop – occorre ammetterlo – che in chiusura ha diretto come bis l’Ouverture da Candide di Bernstein: immettendo in orchestra una incredibile carica energetica, molta ironia o più propriamente sense of humour, facendo emergere al meglio la screziata tavolozza della festosa pagina, un vero, ulteriore tour de force per l’orchestra, dopo un programma di vasta campitura, che ha confermato il buon livello delle sue prime parti e un innegabile, collaudato affiatamento: un bel modo per rendere omaggio all’indimenticabile Lennie, nel centenario della nascita. E la sera seguente, replica a Milano per l’apertura sul côté meneghino di un festival destinato a protrarsi sino al prossimo 18 settembre, con appuntamenti per tutti i gusti, dal Barocco al contemporaneo, serate cross-over, solisti e direttori di spicco, da Marta Argerich a Noseda. E scusate se è poco.