di Luca Chierici
Pochi compositori nella storia della musica possono vantare il fatto di essere passati quasi indenni attraverso un periodo storico tra i più turbolenti, che vide il regno di Luigi XVI e la presenza di Marie Antoinette, la rivoluzione, l’era napoleonica, fino all’avvento di Luigi XVIII, Carlo X, Luigi Filippo in un tripudio di mescolanze di casate che fa la felicità degli studiosi di araldica. Eppure l’italianissimo Luigi Cherubini, nato a Firenze nel 1760 ma successivamente approdato a Parigi, via Londra, nel 1787, sembra essersi guadagnato la fiducia, pur non uniforme e a fasi alterne, di tutti coloro che avevano in mano le sorti della nazione, comprese quelle relative all’insegnamento e alla rappresentazione dell’arte musicale. Cherubini maestro nel campo della musica sacra e dell’opera seria, questa l’immagine – sostanzialmente veritiera – che ci viene tramandata dalla tradizione. Ma anche musicista di personalità fortissima – lodato persino da Beethoven – che riesce ad inserirsi in un contesto culturale a lui estraneo, ne vive gli sviluppi apportando un proprio autorevole contributo e termina la propria carriera come indiscussa autorità all’interno del nuovo Conservatoire, che dirige fino al 1842, due anni prima della morte.
L’appuntamento annuale che il Teatro alla Scala dedica alle forze che sono tuttora in fase di perfezionamento alla sua Accademia offriva quest’anno la riproposta di un titolo piuttosto “scomodo”, quell’Alì Babà che rappresenta l’ultimo esito teatrale di un musicista oramai settantatreenne. Tragedia lirica in un prologo e quattro atti, con numerosi connotati buffi (per quanto il termine possa essere interpretato da un compositore sostanzialmente di indole drammatica), Alì Babà vide la luce nel 1833 in una Parigi dove gli sviluppi della musica per il teatro avevano preso da tempo direzioni del tutto diverse. Successo di stima ebbe il titolo, a parte le reazioni fin troppo professionali ma dichiaratamente negative di musicisti come Rossini o Mendelssohn e di quelle palesemente di parte di Berlioz, che come molti professionisti della nuova musica aveva in odio l’anziano Maestro fiorentino. Cherubini peraltro si guardò bene dal presenziare alle recite stesse a Parigi. Successo cui contribuì in parte la presenza di un cast straordinario: la Cinti Damoreau (Delia), Nourrit (Nadir), Levasseur (Alì Babà), la Falcon (Morgane). L’opera non fu più ripresa, abbandonata dopo solo undici repliche, venne diffusa con successo in Germania nel periodo immediatamente successivo e ripescata alla Scala in lingua italiana solamente nel 1963 con un ottimo cast e un discreto successo. Già alla sua prima e unica apparizione scaligera, l’opera era stata vittima di un giudizio critico ambivalente: gradevole e indovinato l’aspetto scenico, buone le voci con una eccellenza nella Delia di Teresa Stich-Randall, ma ambigue le considerazioni puramente musicologiche relative alla divergenza tra la vis comica richiesta dal soggetto e la collocazione storica di un autore come Cherubini.
Di musica originale, perfettamente costruita, calibrata al massimo grado in vista dello sviluppo del soggetto, Alì babà è piena, e si può sfidare chiunque a mettere in dubbio la maestrìa di un compositore fin troppo abile. Ma in teatro (e probabilmente anche in concerto) l’opera sembra non funzionare, dilungarsi in una successione di numeri che raramente tramutano la meraviglia e l’ammirazione in un qualcosa di più viscerale, sanguigno che è proprio dei capolavori mozartiani, dei più bei titoli di Rossini, per non parlare del Fidelio che è opera accostabile a un capolavoro cherubiniano, Lodoiska, felicemente riproposta alla Scala da Riccardo Muti.
E l’altra sera è risultato palpabile un certo imbarazzo da parte degli spettatori – anche quelli non alle prime armi – nei confronti di questo titolo assai singolare. Un imbarazzo, una difficoltà di ascolto che per alcuni si è tramutato addirittura in noia, dovuto sicuramente alla posizione “trasversale” di Cherubini all’interno della storia della musica e del teatro, alla sua italianità archetipica che fa capolino soprattutto nei soggetti drammatici, per non parlare della musica sacra e fino dei quartetti e che si inserisce a fatica nel contesto dell’evoluzione stilistica propria del teatro francese del nuovo secolo. Ma uno degli aspetti negativi che più si coglievano nel riascoltare Ali Babà era anche e soprattutto la palpante debolezza del rapporto parola-musica nella versione italiana dell’opera. Ci si immaginava – per quanto fosse possibile farlo all’impronta – qualche frammento del testo in lingua francese dovuto a Scribe e Mélesville che si sarebbe molto meglio potuto connettere alla frase musicale, evitando certe vere e proprie sconnessioni metriche che cozzano contro la raffinatezza del linguaggio cherubiniano. E ci si è chiesti come mai in questa occasione scaligera, pur diretta a una rappresentazione che faceva il punto sulle nuove forze dell’Accademia e sul lavoro di una famosa regista, la Scala non si sia sobbarcata la commissione di un lavoro di recupero della versione originale francese, magari non proprio una edizione critica, che evitasse il ricorso alla versione approntata da Vito Frazzi e già sperimentata nel 1963. Se ne sono sentite di tutti i colori in teatro, anche da parte di persone bene informate: la partitura originale in francese e addirittura il libretto originale sarebbero addirittura andati perduti! Tutte affermazioni subito confutabili anche attraverso semplici ricerche oggi possibili in rete. E la partitura disponibile ad esempio alla Bibliothèque National de France è sì manoscritta ma non autografa: vale a dire facilmente decifrabile – era il genere di copie in bella calligrafia spesso utilizzate all’epoca per la pratica teatrale – per creare una versione a stampa corretta e pronta all’uso. Peccato, perché si è persa in questo caso un’occasione non da poco per rivitalizzare un lavoro più che degno di attenzione.
Alla talvolta zoppicante versione di Frazzi – pare che la stessa Liliana Cavani si fosse opposta al recupero della versione francese – si è dunque sovrapposta l’attenzione verso l’aspetto registico e scenico – compresi gli immancabili ballets – e a quello vocale. In quest’ultimo caso, per quanto l’apporto dato dagli interpreti principali fosse encomiabile, gran parte del pubblico si è lasciata andare all’inizio a grida di entusiasmo che sono apparse un po’ esagerate e che non potevano certo non diciamo evocare le mitiche presenze di una Cinti-Damoreau o di un Nourrit, ma nemmeno quelle della Stich Randall o di Kraus, protagonisti dell’allestimento scaligero di ben 55 anni fa e ascoltabili ancora oggi grazie alla diffusione della trasmissione radiofonica originale. Bravissimi, senza avanzare confronti improponibili, si sono rivelati soprattutto Francesca Manzo, Delia vigorosa e tenera allo stesso tempo come una Konstanze mozartiana, Riccardo Della Sciucca, Nadir che “krauseggiava” alquanto (ma è ovviamente un complimento), Maharram Huseynov, capo dei briganti. Poco distanti in ordine qualitativo la Morgiane di Alice Quintavalle e l’autorevole Alì Babà di Alexander Roslavets, unico cantante già in carriera e non proveniente dall’Accademia. Notevoli gli altri, con l’eccezione di Eugenio Di Lieto, Aboul-Hassan forse non in perfetta forma. Di grande spessore il coro e l’orchestra dell’Accademia guidati al risultato complessivo da Paolo Carignani, che non si è limitato a una lettura quasi perfetta del difficile testo, ma ha contribuito a rivitalizzarlo e a trovare una chiave interpretativa di tutto rispetto.
La visione di Liliana Cavani era tutta concentrata sull’importanza del simbolo del danaro, dell’avidità. Un richiamo che è piuttosto scontato vista la ben nota trama della favola tratta dalle Mille e una notte, anche se la citazione diretta di quel testo non è presente nel soggetto dell’opera, e che non pensiamo sia stato nelle corde di un musicista come Cherubini, classicamente interessato piuttosto all’intreccio amoroso, al contrasto paterno, agli intrighi che pullulano nel corso dello svolgimento dei fatti. Un intreccio, dunque, che secondo la regista può essere ambientato in qualsiasi epoca e in qualsiasi luogo e che la Cavani ha voluto interpretare anche sottolineando l’aspetto comico del libretto. Ne è risultato uno spettacolo gradevole, anche grazie all’apporto scenico di Leila Fteita, ai costumi di Irene Monti, le luci di Marco Filibeck. La coreografia di Emanuela Tagliavia è apprezzabile per la rispondenza alla concezione registica e ha messo in luce le doti degli allievi della Scuola di ballo del teatro. La Fteita ha illustrato l’incombente presenza della preziosa grotta attraverso una struttura gigantesca le cui due pareti visibili – i portali di accesso – erano ricoperti di piastrelle bianchissime e ha ornato di belle architetture moresche in azzurro il palazzo di Alì Babà dove si compie l’epilogo del soggetto. Nonostante la lunghezza della rappresentazione il pubblico non ha risparmiato gli applausi sia al termine della serata – per tutti i protagonisti – sia al termine delle arie di notevole difficoltà riservate a Delia e a Nadir.