
A colloquio con Radovan Vlatkovic, cornista di rara sensibilità musicale (e umana)
“Il corno è l’anima dell’orchestra” diceva Robert Schumann. E gli assidui frequentatori delle sale da concerto hanno imparato, da allora in poi, a riconoscere il timbro di questo meraviglioso strumento, a distinguerlo tra gli altri, anche durante un tutti in ff; insomma, hanno condiviso il senso più profondo delle parole del celebre compositore. Eppure, ascoltare dal vivo Radovan Vlatkovic pone in tutt’altra prospettiva perché ascoltare lui significa amare il corno tout court. Significa scoprire che il corno ha un’anima.
Classe 1962, croato, questo straordinario cornista ha il grande merito di aver reso molto popolare il suo strumento: per i musicisti più giovani dire Vlatkovic significa dire corno francese. E viceversa. Quando glielo rammento, mi risponde un po’ timido: «Grazie». Ma aggiunge subito: «Io cerco solo di rimanere in contatto con le nuove generazioni, ma anche con quelle passate. Dieci giorni fa, ad esempio, sono stato a Firenze, per una masterclass e ho incontrato cornisti molto giovani, ma anche persone con più esperienza. Per me è molto bello vedere che ragazzi con cui ho fatto i primi corsi sono cresciuti e oggi suonano, molti di loro in teatri importanti (Venezia, Bologna, Napoli, Milano)». Ma il maestro croato ha anche un altro grande merito: quello di aver fatto conoscere, a un pubblico sempre più vasto, la musica contemporanea che nel suo repertorio occupa uno spazio importante. Moltissimi compositori hanno scritto appositamente per lui: ma anche in questo caso, Vlatkovic cerca di non dare troppo peso alle parole “appositamente per lui”. «Alcuni compositori hanno scritto per me, è vero. Questo perché ho avuto la fortuna di conoscere personalmente bravissimi compositori come Heinz Holliger, e tramite lui, Elliot Carter, che oggi ha più di 100 anni ma è ancora molto attivo. Grazie a Gidon Kremer, con cui ho suonato, ho conosciuto, poi, Sofija Asgatovna Gubajdulina; negli ultimi anni, un incontro importante è stato quello con Krzysztof Penderecki. Quando ero ancora studente ho sentito la prima volta a Zurigo una sua composizione, la Passione secondo San Luca: un brano che mi aveva molto impressionato. È stato fantastico suonare il Concerto per corno e orchestra, sotto la sua direzione e parlare con lui, capire il processo della creazione. Ogni mattina dedica almeno 2-3 ore alla composizione: ha un ritmo di lavoro impressionante. E poi, non è così severo con le sue composizioni: lascia molta libertà all’interprete, ha fiducia nei colleghi musicisti, perché è stato anche un violinista e dà un impulso e un’energia impressionanti. Non tutti i compositori sono così. Ho suonato questo concerto anche con altri direttori, che sono stati più “rigidi” di lui. Inoltre, ha tantissima esperienza nella direzione: è molto bravo».
Incontro Radovan Vlatkovic a Milano, in Auditorium, prima del suo terzo e ultimo concerto in quattro giorni: manca meno di un’ora alla sua esibizione, ma trova ugualmente il tempo per questo colloquio. E, prima di me, ha trovato il tempo per incontrare i cornisti dell’Orchestra Sinfonica Verdi: ha deciso di fare un bis con loro, un Andantino di Sibelius per 6 corni. È il suo modo di salutare e di ringraziare, il suo modo di “rimanere in contatto”. Del resto, Vlatkovic sa bene cosa significhi suonare in orchestra, essendo stato per 8 anni “Primo Corno” alla Radio Symphonie Orchester Berlin: un’esperienza nata da un incontro fortuito e che rammenta sempre con piacere. «Con Riccardo Chailly ho suonato i miei primi programmi nell’orchestra giovanile tedesca: mi è piaciuto molto come musicista e quando ho visto che c’era la possibilità di fare il concorso a Berlino, alla Radio Symphonie Orchester, dove lui era direttore stabile, ho provato». Un ricordo bellissimo non solo dell’esperienza musicale, ma anche di quella umana. «Berlino era ancora una città divisa: noi vivevamo nell’Ovest. Avevo conosciuto la città già durante un tour con un piccolo ensemble della scuola di Detmold ed ero rimasto affascinato dai musei, dalle orchestre, dalla cultura: insomma, da tutto quello che offriva questa meravigliosa città. A quei tempi, Berlino era una città speciale, come un’oasi, una realtà cosmopolita. Molti miei colleghi venivano da tutto il mondo: amavo quest’atmosfera internazionale. Andavo sempre ai concerti della Berliner Philarmoniker, diretta ancora da Herbert von Karajan. È stata un’esperienza bellissima e molto divertente».
Quasi subito, però, arriva un riconoscimento importante: nel 1983, Vlatkovic vince il Primo Premio al concorso ARD di Monaco di Baviera e le occasioni, sempre maggiori, di suonare come solista e in formazioni cameristiche lo costringono ad abbandonare l’orchestra. «Ho deciso di lasciare l’orchestra e di dedicarmi di più a questo lavoro: all’inizio come free lance. Dopo un po’ mi hanno invitato a insegnare alla Musikhochschule di Stoccarda ed è stato molto bello perché c’era un team di insegnanti favolosi, tra i quali Sergio Azzolini e Jean-Claude Gérard. Abbiamo suonato moltissima musica da camera, anche insieme agli allievi». E la musica da camera continua a occupare un posto importante nella vita del musicista, così come l’insegnamento: oltre a corsi e masterclass in Croazia, Italia, Spagna, Francia, Finlandia, Austria, Gran Bretagna, Giappone e Stati Uniti, dal 1998 insegna al Mozarteum di Salisburgo e dal 1999 al Conservatorio “Reina Sofìa” di Madrid. Negli ultimi anni, ai già numerosi impegni, Vlatkovic ne ha aggiunto un altro, presentandosi spesso nelle vesti di direttore d’orchestra. «È difficile conciliare tutto. Trascorro moltissimo tempo in viaggio e pochissimo in famiglia: non ho ancora trovato l’equilibrio ideale. La mia famiglia, mi ha appoggiato molto, soprattutto mia moglie: è stata bravissima con i nostri figli [6, n.d.r.], ma quando c’è la possibilità, soprattutto durante l’estate, mi segue».
Una vita dedicata completamente alla musica, dunque, a 360°. Eppure, questa passione, che oggi è la sua vita, è iniziata per un semplice caso, per un incontro del destino. «Quando avevo sei anni sono stato negli Stati Uniti con i miei genitori. Mio padre era un chimico e ha lavorato all’Università di Wisconsin–Madison: tra gli studenti, ne ha conosciuto uno che suonava il corno. Un giorno è venuto a trovarci a casa e io sono stato “incuriosito” da questo strumento: mio padre, allora, gli ha chiesto di farmi lezione ogni sabato, ma per me era un gioco, un divertimento. Il mio primo strumento è stato un Mellophone e ho imparato i primi brani. Un anno dopo, quando siamo tornati a Zagabria, ho iniziato un po’ più seriamente in una scuola di musica, in maniera più strutturata: corno, solfeggio, teoria. Direi che suonare non è stata una mia scelta: è iniziato tutto per una semplice curiosità. I miei genitori amavano molto la musica, avevano cantato nei cori e suonavano un po’ il pianoforte: mi hanno sempre appoggiato nello studiare il corno, ma nemmeno loro immaginavano che avrebbe avuto un seguito».
Gli chiedo se ricorda il momento in cui ha capito che sarebbe diventata “una cosa seria”. «A 15 anni, quando sono entrato in Accademia a Zagabria. Il mio insegnante di corno, con cui studiavo da due anni, mi ha offerto la possibilità di entrare lì abbastanza giovane: la maggior parte degli studenti aveva 18-19 anni». E, abbastanza presto, ha trovato anche il suo corno, fedele compagno da quasi 30 anni: un “doppio corno” Modello 20 M di Paxman of London. «Per il repertorio solistico e per la musica da camera mi trovo molto bene con questo strumento: mi piace soprattutto la sonorità di questo corno. La scelta di uno strumento è molto personale: io, ai miei allievi, raccomando di cominciare con un doppio corno e, poi, di provare altri modelli, anche e soprattutto, copie di corni naturali, per conoscere lo sviluppo del nostro strumento e per avere la possibilità di agire meglio nel mondo del lavoro, come free-lance. È una necessità oggi avere elasticità e organizzare da soli il proprio lavoro. Bisogna aspettare meno e essere più attivi».
Prima di salutare Vlatkovic e riascoltare, con estremo piacere, il Primo Concerto di Strauss, gli chiedo come vede la situazione della musica in Italia, Paese che ama molto e nel quale ritorna sempre con piacere. «Parlando con tanti colleghi ho capito che la situazione musicale in Italia è molto difficile, a causa dei continui tagli alla cultura, agli enti lirici: è una battaglia molto importante da affrontare. Voglio mostrare solidarietà con tutti quelli che stanno lottando in Italia per i valori, per la tradizione artistica di questo Paese: l’opera lirica, ad esempio, è un patrimonio che l’Italia ha regalato a tutto il mondo. Ci sono moltissimi giovani che amano la musica e che hanno desiderio di studiare seriamente: è nostro dovere organizzare le condizioni di lavoro che meritano».
Adriana Benignetti