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Al via nel capoluogo piemontese i festeggiamenti per il bicentenario della nascita di Richard Wagner con un allestimento dell’Opéra de Paris, direttore Gianandrea Noseda. Nel segno del compositore tedesco anche l’inaugurazione di stagione dell’Orchestra Sinfonica Rai
di Attilio Piovano
U n’inaugurazione davvero “alla grande” quella della stagione del Teatro Regio, a Torino, venerdì 12 ottobre, con un’edizione del wagneriano Olandese volante di gran classe, nell’allestimento dell’Opéra National de Paris con la regia di Stefan Heinrichs dall’originale di Willy Decker (sulla quale meriterà soffermarsi con una serie di considerazioni e riflessioni specifiche). Due ore e un quarto filate, senza intervalli, come a Bayreuth, e sono passate via lisce in un baleno. Sul podio Gianandrea Noseda, rivelatosi ancora una volta nocchiere esperto a navigare tra le acque increspate e fascinose di questa partitura di indicibile bellezza, frutto di un Wagner appena trentenne, già proiettato sulla via della conquista della propria cifra. C’è tutto il Wagner futuro in quest’opera sublime: e non solo per la tematica della redenzione che giungerà fino a Parsifal, per le modalità d’impiego dell’orchestra, quanto a concezione drammaturgica che ti incatena alla poltrona e ti tiene col fiato sospeso con l’appeal di una moderna fiction (di quelle di qualità s’intende).
La regia del binomio Decker-Heinrichs e le scene di Wolfgang Gussmann illuminate dalle luci di Hans Tölstede, accurate nei minimi dettagli, al servizio della drammaturgia, per lo più livide e taglienti, ad accrescere il senso della tensione fin dall’ouverture
Noseda ha potuto contare su un’orchestra in ottima forma e su cast di eccezionale qualità. E allora quante emozioni, fin dalle note iniziali, quelle ondate spumeggianti come tempesta del mare del Nord, fitte di dissonanze e insistiti richiami di ottoni a prefigurare, con le loro quinte vuote, segnali nautici. E subito si sprigiona tutto il senso della natura che il giovane Wagner eredita dal mondo dell’opera romantica tedesca, Weber in primis, ma c’è anche l’universo italiano (basterebbero il monologo dell’Olandese e la Ballata di Senta a confermare una concezione drammaturgica che era ben consapevole di certo teatro nostrano basato sull’aria-scena), ma Wagner ci mette del suo, molto del suo. Un uso già scaltrito del leit motiv, l’adozione di un’orchestra policroma e duttile e altro ancora. E allora innanzitutto un plauso speciale a Noseda per come ha saputo cogliere quel senso di contrapposizione, palpabile all’ascolto, del mondo marino, il mare come presenza immanente, col suo fascino arcano, e l’universo borghese, il mondo (a terra) di Daland e della sua famiglia. La partitura divide nettamente i due piani. Ed è palpabile, dopo l’inizio nel segno del mistero, percepire quel senso di casa, di ambiente Biedermeier, borghese e tranquillo, dove al cicaleccio quotidiano, reso da un’orchestrazione trasparente, leggera e leggiadra, si mescolano aspirazioni un poco più elevate e progetti matrimoniali. E allora ecco che la partitura si declina in ritmi di danza e serene atmosfere: uno dei temi, celeberrimo, destinato a ricorrere spessissimo in partitura, richiama da presso il finale del Concerto per pianoforte e orchestra op. 54 di Schumann, e suona ottimista e festoso. Quando per la prima volta Daland e l’Olandese argomentano del possibile matrimonio, ecco che la partitura si fa cordiale e quasi bonaria, sa di casa, di calore di camino e di calore degli affetti domestici. Come un mare ormai in bonaccia, come a delineare il senso della tranquillità e della sicurezza. Ma il fatalismo tragico è insito nel destino degli uomini. E allora ecco i tratti di inquietudine nella personalità di Senta, turbata e percorsa da brividi di ineluttabilità. Noseda ha ben colto tutto questo nella sua affascinante lettura dell’opera.
Nell’Olandese, che pure prevede in molti tratti uno spessore orchestrale davvero notevole, le voci, si sa, rivestono un ruolo non meno centrale. E allora merita rilevare subito l’ottima prova fornita dagli applauditi protagonisti, il baritono Mark S. Doss, nel ruolo impervio dell’Olandese, che ha saputo per così dire umanizzare, nel senso migliore: pur mantenendo al personaggio quel che di tragico che lo connota, ne ha rilevato anche i tratti sensibili di uomo che vorrebbe risparmiare sinceramente alla morte la devota Senta, attenuando qualcosa del versante per così dire fantastico e da leggenda nordica. Voce possente e sicura e gran presenza scenica. Così pure dicasi del Daland a tutto tondo sbozzato dal basso Steven Humes, capace di varie sfumature psicologiche, dal timbro appena velato nel registro medio da un che di nasale. Molto convincente il soprano Adrianne Pieczonka nel ruolo di Senta (assai apprezzata anche sul piano scenico): ha saputo renderne l’inquietudine che la divora. Bene sul piano vocale con qualche asprezza appena nel registro sovracuto, ma con bei suoni filati e delicati pianissimi, dove occorre. Passabilmente convincente il cacciatore Erik del tenore Stephen Gould, sfortunato (e disperato) fidanzato di Senta: il suo scoramento era palpabile negli accenti vocali, qualche gesto prevedibile e impacciato e qualche goffaggine nella mimica. Bene il timoniere del tenore Vicente Ombuena e non sempre ben udibile la nutrice Mary della pur valida Claudia Nicole Bandera. Superlativa la prova del coro, anzi dei cori: già perché all’ottimo Coro del Regio istruito da Claudio Fenoglio, per l’occasione si è unito altresì il Coro Maghini preparato da Claudio Chiavazza.
Per ultimo, perché è aspetto non certo secondario che come tale merita una serie di riflessioni, la regia del binomio Decker-Heinrichs e le scene di Wolfgang Gussmann illuminate dalle luci di Hans Tölstede, accurate nei minimi dettagli, al servizio della drammaturgia, per lo più livide e taglienti, ad accrescere il senso della tensione fin dall’ouverture. Le scene dunque, anzi per meglio dire la scena, di fatto unica e perfettamente funzionale. Bellissima ed elegante, sghemba, con una gigantesca porta bianca sulla destra a rendere il senso del destino che sovrasta gli umani in una scala molto più vasta e a far da tramite tra il mondo esterno, con squarci sul mare, ora azzurro, ora nero, ora rosso, ora verde intenso, dalla quale si intravedono le vele rosso sangue del veliero, e l’interno dominato da un olio sulla sinistra ad evocare ancora una volta il mare e le sue proteiformi metamorfosi (mentre il celebre ritratto è formato mignon e sta costantemente nella mani di Senta). La regia, allora: qualcuno mugugnava lamentando che non si è mai visto entrare in casa una nave. In realtà i marinai trascinano coreograficamente, e con grande impatto emotivo, gomene fin nella parte centrale del palcoscenico. Ed è d’effetto, davvero. Una regia intelligente, metaforica e sapiente, evocativa, capace di far presa sulle corde dello spettatore intelligente. Che non sta a preoccuparsi (prosaicamente) come mai i marinai bivacchino nello stesso spazio in cui poi si muoveranno Senta e le filatrici; che non sta a disquisire più di tanto sul perché le filatrici siano in realtà più ricamatrici impegnate su un enorme lenzuolo simbolo di parecchi metri quadrati (in assenza totale di arcolai). Certo qualche perplessità la suscita, in chiusura dell’opera, la tragedia di Senta che si consuma con un coltello (lo stesso conficcato dall’iracondo Erik su un tavolaccio) mentre il libretto prevede che si getti tra i flutti. Obiettivamente una (più o meno piccola) caduta di gusto. Mentre vanno rilevati i movimenti scenici di grande efficacia delle masse di marinai e ragazze che festeggiano, ancora nel medesimo ambiente, e il loro parallelismo assume un valore simbolico ed efficace. Insomma una regia di innegabile impatto, al di là delle filosofeggianti (e solo in parte condivisibili) dichiarazioni di intenti dello stesso Decker che legge l’opera in chiave pseudo-psicanalitica: ciò che conta è il risultato in teatro, e questo è davvero di notevole levatura. Successo vivissimo e applausi protratti a tutti, con un picco speciale per il nocchiere Noseda.
E la sera precedente, giovedì 11, a Torino si è aperta anche la stagione 2012/13 dell’Orchestra Sinfonica Nazionale Rai diretta dal fuoriclasse Juraj Valcuha, nel segno di Wagner (Preludio Atto I e Incantesimo del Venerdì Santo dal Parsifal, invero non memorabile, con varie sbavature qua e là, e poi Addio di Wotan e Incantesimo del fuoco (atto II) da Die Walküre col poco stentoreo e spesso opaco James Rutherford. Certo a 24 ore di distanza è interessante constatare come in alcune pieghe dell’Olandese già si sentano Parsifal e anche le Valchirie stesse. Molto entusiasmante invece la Prima Sinfonia di Mahler secundum Valcuha: stupendo l’esordio, assorto, misterioso, e poi primaverile, gioioso. Poi quel che di slavo, di balcanico nel vigoroso Scherzo, la cupa ossessione dell’Adagio che rielabora in chiave allucinata e grottesca il celebre tema di Fra’ Martino e da ultimo un superlativo Finale. E qui Valcuha, orchestratore accurato e attentissimo ai minimi dettagli, e l’Orchestra Rai hanno dato il meglio suscitando ampie e meritate ovazioni.
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