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Concerti • In formazioni da camera e in compagine orchestrale, la Staatskapelle di Dresda si è presentata trionfalmente al suo nuovo pubblico. Thielemann e Chung hanno diretto musiche di Mozart, Beethoven, Weber, Verdi, Wagner, Brahms, Mahler e Henze
di Francesco Lora
N el Festival di Pasqua di Salisburgo, quest’anno passato dal protagonismo dei Berliner Philharmoniker a quello della Sächsischen Staatskapelle di Dresda, una corona di concerti si è affiancata all’allestimento del Parsifal di Richard Wagner, già recensito in queste pagine. Se è vero che, di edizione in edizione del Festival, la maggior attenzione spetta in genere allo spettacolo operistico, altrettanto vero è che in questo 2013 i concerti hanno ricevuto una partecipazione straordinaria: più che mai in essi la nuova orchestra residente si è presentata, nel pieno delle proprie facoltà artistiche e tecniche, al pubblico internazionale convenuto a Salisburgo.
Ci piace qui servire come un antipasto il concerto da camera del 28 marzo, evento isolato – cioè non soggetto a replica, come gli altri concerti della rassegna – e ambientato nell’insolito spazio del Republic, una sala teatrale di norma destinata a spettacoli d’intrattenimento e sperimentali: vi si sono esibiti tre diversi ensemble, tutti formati da musicisti membri della Staatskapelle, e indicativi delle virtù dell’orchestra a partire dall’abilità dei suoi solisti e delle sue sezioni. Raffinato, raro e vario il programma, nuovo soprattutto agli orecchi di un ascoltatore avvezzo alla programmazione concertistica all’italiana. L’ensemble Kammerharmonie, formata da due oboi, due clarinetti, due fagotti e due corni, ha eseguito la Serenata in do minore K 388 di Wolfgang Amadé Mozart, piccolo tesoro di accostamenti timbrici e classico contrappunto; il Dresdner Streichquartett, con l’aggiunta del clarinettista Wolfram Grosse, il Quintetto in si bemolle maggiore op. 34 di Carl Maria von Weber, che esemplifica le influenze del virtuosismo all’italiana sull’autore del Freischütz; l’ensemble SemperBrass, formato da quattro trombe di diversa taglia, due corni, quattro tromboni, tuba e timpani, infine, ha presentato la Sonata per otto ottoni di Hans Werner Henze, una suite su temi wagneriani approntata da Frank van Nooy e una piccola collezione di bis richiesti a gran voce. Archi, legni e ottoni: distinti in queste famiglie di strumenti, i musicisti della Staatskapelle confermano la veridicità del celebre aneddoto: essi non solo costituiscono l’orchestra forse la più antica del mondo, fondata nel 1548, ma anche ravvivano in essa le ottime maniere apprese in quasi 500 anni di vita; tutti insieme sono un esercito lucente, impetuoso, scattante, ma se si volge l’orecchio ai dettagli sembra di udire ancora la galanteria di Johann Adolf Hasse nel luminoso e zuccherino suono degli archi, così come in legni e ottoni sembra di riconoscere in un sol tempo gli aromi timbrici sparsi da Heinrich Schütz fino a Richard Strauss. È un’orchestra di personalità spiccatissima e inesaustibile, degna pari grado dei Wiener Philharmoniker, con la principale variante di essere meno sovrumana e indomabile, più disciplinata e cordiale.

Un altro concerto da camera ha invece visto, accanto all’Arabella Quartett, il primo direttore ospite della Staatskapelle, Myung-Whun Chung, nei panni per lui non insoliti ma comunque peculiari di pianista. Nella Sala grande del Mozarteum, la mattina del 26 marzo e del 1° aprile, il programma è stato diviso tra due compositori cui il Festival ha quest’anno dedicato uno spazio particolare: Henze, con un Epitaph e una Serenade volte a esplorare le potenzialità del violoncello e del violino solo, e Johannes Brahms, col suo celebre Terzetto con pianoforte in si maggiore op. 8 (versione 1889) e con l’ancor più celebre Quintetto con pianoforte in fa minore op. 34. Nei brani per strumento solo, il violinista Matthias Wollong e il violoncellista Peter Bruns si sono distinti per ispirazione di lettura, mentre tutti i musicisti del quartetto hanno avuto il loro da fare per tenere testa a Chung, vero concertatore anche dalla tastiera, e pianista con articolazione a pieno fuoco e a tutto peso.
L’approccio di Chung al pianoforte è stato del resto riconfermato nel concerto sinfonico che egli ha diretto, il 24 e il 31 marzo, nel Grosses Festspielhaus. Per l’esecuzione del Concerto per pianoforte e orchestra n. 4 in sol maggiore op. 58 di Ludwig van Beethoven vi era, al suo fianco, nientemeno che Evgeny Kissin, molta parte del virtuosismo del quale passa attraverso la potenza del gesto musicale e la ricerca della massima sonorità (forse poco riverberante ma scolpita e perentoria, anche nella velocità delle scale e anche a costo di qualche nota sbagliata). Ed è al virtuosismo che Chung chiama anche tutta la Staatskapelle, facendone rifulgere ogni strumento in una sfarzosa Ouvertüre del Freischütz di Weber e soprattutto nella Sinfonia n. 1 in re maggiore di Gustav Mahler: il lievitare del suono giunge anzi qui a un’esibizione insieme caleidoscopica e formidabile, vera carta d’identità di una compagine che scoppia di salute tecnica.
Il discorso si fa più scabroso e ibrido nel riferire del “Concerto per Salisburgo”, ossia della serata unica che, nel tardo pomeriggio del 28 marzo, ha fatto da spartiacque tra i due cicli omozigoti e speculari del programma. Sul podio si sono alternati Chung e il direttore musicale della Staatskapelle, Christian Thielemann, l’uno impegnato in musiche di Giuseppe Verdi, l’altro in musiche di Richard Wagner. La Staatskapelle ha così reso omaggio ai coetanei rivali dell’800 operistico musicale europeo, nel bicentenario della loro nascita; e le due valve non avrebbero potuto avere esito più antitetico. Esemplare la prima parte del concerto, a base di Wagner e Thielemann: si ammira un’Oüverture del Tannhäuser dove gli archi incedono con nobile fierezza, su tempi più spediti del consueto, e dove legni e ottoni fanno rosseggiare l’impasto con caldi echeggi epici; si ammira il fervore incontenibile con cui, nell’aria «Dich, teure Halle» dalla stessa opera, è accompagnata la voce di Rachel Willis-Sørensen, esordiente soprano americano che, nel fluire dell’emissione e nel bagliore del timbro, ricorda a suo modo June Anderson. Spiace anzi che il successivo dittico di Preludio e Liebestod, da Tristan und Isolde, sia eseguito non con la Willis-Sørensen, ma nella sua versione solo strumentale, in una lettura tuttavia di riferimento per nebulizzazione di colori orchestrali e spontanea ariosità conferita ai temi.
Brusco cambio di rotta nella seconda parte del concerto, a base di Verdi e Chung. Nel Preludio all’atto I della Traviata, con le sue lamine di suoni acutissimi, i violini della Staatskapelle indulgono a sbalorditive incertezze d’intonazione. Nel cantabile «Di Provenza il mar, il suol» il baritono Julian Kim ostenta gran volume e gran smalto, ma partecipa a una lettura superficiale già nelle mani di Chung: una sferzata d’accento patetica e sciocca viene piazzata sulla parola “tetto”, quasi che lì passasse il cuore del dramma, e non, piuttosto, su “onor”. Dilettantesca è poi la scelta di far intonare, allo stesso baritono, «O Carlo ascolta, la madre t’aspetta … Io morrò, ma lieto in core» dal Don Carlo: a differenza di quanto afferma il programma di sala, infatti, non si tratta affatto di un’aria, ma di un brandello del tempo di mezzo, e della successiva cabaletta, di un’aria che inizierebbe col cantabile «Per me giunto è il dì supremo» e che, soprattutto in tempo di celebrazioni verdiane, sarebbe imperativo presentare nella sua interezza. Anche l’esecuzione della Sinfonia dalla Forza del destino pecca di insufficiente reverenza alle logiche della musica verdiana: la concertazione mette in rilievo il valore della Staatskapelle, ma solo quello tecnico e non quello espressivo, e non si avvede che i temi, staccati con tempi talora troppo indugianti o precipitosi, fino alla deformazione, non potrebbero essere così ripresi dai cantanti nel corso di una recita. Chi fa la figura migliore è Maria Agresta, soprano non malioso ma diligente, che nella scena finale dell’atto I della Traviata – con cantabile privato della seconda strofa; cosa direbbe Chung se cominciassimo a dimezzare il Liebestod? – e nell’«Ave, Maria» dall’Otello abbozza una Violetta Valéry e una Desdemona con psicologia più matura rispetto alla convenzione. Per finire in bellezza il verdicidio, ecco un bis: il Brindisi dalla Traviata, senza coro e senza pertichini, ma con l’aggiunta del tenore Attilio Glaser; quel macabro e convulso valzer di morte, presagio della tragedia, suona così ancora una volta come pezzo festoso per la gioia della massa, equivalente italiano della Marcia di Radetzky ritmata a suon di battimani. Un’esperienza avvilente.

Un’altra abitudine cattiva e ubiqua è quella di infestare la settimana santa, cioè la settimana di svolgimento del Festival di Pasqua, con programmi concertistici che paiono pertinenti senza in realtà esserlo. Fa sorridere che un’opera eretica e sacrilega come il Parsifal sia divenuta, nei teatri mitteleuropei, il titolo-chiave del periodo pasquale; e fa sorridere che il venerdì santo sia di norma scandito da esecuzioni di luguberrime messe funebri, le quali invitano a riflettere più sul tema della morte – spesso tradotto in musica da un punto di vista catastrofico e scettico – che su quello della resurrezione. Non a caso, per l’edizione 2014 il Festival salisburghese ha programmato il Requiem di Mozart, e quest’anno ha invece dato, il 25 e il 29 marzo, Ein deutsches Requiem di Brahms, un collage di testi biblici scelti dal compositore sulla scorta della propria formazione e personalità, dove si tace sempre il nome di Cristo risorto, e che corrisponde alle aspettative di una «religiosità “umanistica”, condivisibile dai cattolici non meno che dai protestanti, senza escludere altri credi pure ben rappresentati nell’establishment tedesco dell’epoca: israeliti, massoni e deisti senza qualificazioni ulteriori» (Carlo Vitali). Nel Grosses Festspielhaus, Thielemann ne ha diretta una versione con sonorità compatte, centripete, compunte, chiedendo alla Staatskapelle e al Coro della Radio bavarese più di togliere e contenere che di ricercare e mostrare. La scelta dei tempi e l’escursione dinamica non osa infatti mai oltre i limiti della giustezza: nella finale sezione fugata del terzo movimento, «Herr, lehre doch mich», dove una nota di pedale rimane salda per tutte le trentasei battute (tecnica nella quale si è voluto intravedere l’immagine di Dio che alza la difesa sulle anime dei giusti), Thielemann rinuncia a qualsivoglia effettismo portato dalla tradizione recente, e sembra al contrario dirigere i cantori e gli strumentisti di una comunità religiosa pacatamente assorta nel rito liturgico. In linea con questa visione è anche l’apporto dei solisti, il soprano Christiane Karg e il baritono Michael Volle, cui il direttore chiede di cantare piano, piano, piano, e di far ascoltare più la sillaba che la nota.
Non poi tanto dissimile, nella sua austerità, è il Brahms della Sinfonia n. 4 in mi minore op. 98, così come Thielemann l’ha diretta nel Grosses Festspielhaus il 26 e il 30 marzo: dopo la rutilante esibizione mahleriana, la Staatskapelle ha qui ripristinato un gesto più sobrio ma non meno monumentale. Doveva esserci, accanto a Brahms, la prima esecuzione assoluta di un brano di Henze, sostituito tuttavia da Fraternité per sopravvenuta scomparsa del compositore. E vi era ancora un’esecuzione, beethoveniana, tra le più belle del Festival di quest’anno: il Concerto per pianoforte e orchestra n. 5 in mi bemolle maggiore op. 73 ha infatti ricevuto da Thielemann e dalla Staatskapelle ritornelli sontuosi e accompagnamento duttile, incorniciando la prova maiuscola del pianista Yefim Bronfman. Solista di eleganza somma, egli sembra il degno contraltare di Kissin: la grazia del tocco, l’eloquio nel fraseggio, il nitore del suono sono avvolti in riflessi madreperlacei, edenici, dove il virtuosismo è innanzitutto concettuale, poi tecnico, e infine realizzato tecnicamente in nome del concetto. Da ascoltare e riascoltare, senza mai perdere lo stupore.
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