È andata in scena al Teatro la Fenice l’opera di Mozart con la regìa di Ursel e Karl-Ernst Herrmann
di Elena Filini
L’INCOMPRENSIONE È UNA CATEGORIA attraverso cui la storia della creazione umana deve di necessità passare, prima di imporsi in tutta la sua intuitività. Perché il disamore che ha circondato alcuni dei più lungimiranti prodotti dello spirito umano ne ha in qualche modo spiegato, a posteriori, il successo. Inattuale, per un pubblico che si nutre con maggiore facilità di messaggi confortanti, inquadrabili, ecco che invece l’ultimo titolo di Mozart, incontra uno spettacolo straordinario ma, per il momento in cui fu allestito, incomprensibile. Il risultato immediato fu, nel 1982, l’incandescenza. Per fortuna il tempo ha reso giustizia sia, in parte, alla Clemenza di Tito sia alla regia di Ursel e Karl-Ernst Herrmann. Lo spettacolo che Riccardo Muti non capì, lasciando il podio una settimana dalla prima di Salisburgo («se fosse stato uno spettacolo innovativo mi avrebbe interessato» furono le sue parole a Repubblica pochi giorni dopo) oggi a Venezia riluce nella sua essenziale bellezza, nella cura del dettaglio, nella lettura dolente. L’involucro è bianco ma le trasparenze raccontano il labirinto dell’uomo, dove si mescolano rabbia e ambizione, infatuazione dei sensi e amicizia, fiducia, paura e solitudine. La Roma imperiale, che già ha le marcescenze del basso impero, si mostra in tutti i presagi più sinistri. Gli oggetti raccontano storie di potere e ambizione, i magnifici costumi danno il segno della trasversalità del turbamento. Il potere cambia di volto ma non muta se stesso. E così gli abiti, sontuosi, geometrici, di taglio perfetto, portano lo spettatore ad una continua oscillazione tra Roma e la Felix Austria, con al centro la figura benevola ed ingombrante di un sovrano.
L’operazione di montaggio fatta su questa ripresa è stata decisamente accurata: a beneficiarne soprattutto il gesto teatrale che veste la neutralità della scena, ed è cangiante, consapevole, mai meccanico, volutamente attivo al limite dell’isteria nei lunghi recitativi, forse comportando solo a tratti qualche inasprimento vocale. Ammalia Monica Bacelli nel ruolo di Sesto: il Cherubino per antonomasia, nel registro serio, coglie un evidente successo personale per il fraseggio delicato, il timbro brunito, l’appoggio morbidissimo e la proiezione infallibile. Dopo l’aria «Deh! per questo istante solo» la macchina musicale si arresta per il giusto e ripetuto omaggio a questa grandissima artista. Importante anche la prova di Carmela Remigio, bellissima e palpitante nei costumi di Karl-Ernst Herrmann, che a Vitellia in particolare regalano grande charme. Il soprano torna al suo repertorio di pertinenza e lo fa con l’infallibile musicalità e il senso del teatro che da sempre la contraddistinguono. La recita è un work in progress e porta Carmela Remigio a contemperare il suo naturale temperamento con la ricerca di un colore sempre più morbido ed omogeneo che si rivela appieno nel rondò finale «Non più di fiori». Il Tito di Carlo Alemanno mette in campo il piacevole vantaggio di un autentico colore baritenorile mescolato all’uso efficacissimo delle colorature. Buona la prova di Raffaella Milanesi come Annio sia sotto il profilo teatrale e sia nella ricerca di linea nelle arie, mentre la voce appare più diseguale nei recitativi.
Corretta la Servilia di Julie Mathevet a tratti afflitta da un vibrato troppo stretto, mentre Luca Dall’Amico presta il suo importante mezzo al ruolo di Publio, premendo a volte all’eccesso sulla corda marziale. Ottavio Dantone, giustamente festeggiato al termine della recita, imposta una lettura di coerente trasparenza del lavoro mozartiano, equilibrando lo scompenso platea-golfo con l’innalzamento dell’orchestra. Un Mozart meno sparato del solito, che si apprezza anche nei tempi comodi scelti per i cantabili. Precisa e stilisticamente ineccepibile la lettura del Coro della Fenice istruito da Marino Moretti.
© Riproduzione riservata