
Breve intervista al basso italiano in occasione del suo debutto alla regìa nella rossiniana Cenerentola
di Ilaria Badino
Dove hanno origine le radici profonde dell’interesse per la regia?
«La passione per il teatro ha sempre contrassegnato le svolte della mia vita artistica e professionale. Probabilmente anche il mio percorso di musicista su più fronti (pianoforte, composizione, direzione di coro) è servito a maturare questa consapevolezza, che si è concretizzata nella scelta del canto lirico quale professione principale, divenuto tramite privilegiato di approfondimento dell’arte scenica».
Nel Suo primo approccio registico (La Cenerentola al Teatro Comunale “Mario Del Monaco” di Treviso) ha preferito non dedicarsi, allo stesso tempo, anche al canto. Ci spiega le ragioni di questa scelta?
«L’idea iniziale di questo mio debutto partiva proprio dal presupposto di propormi in veste sia di solista che di regista. Poi, in corso “d’opera”, ho capito che il mio coinvolgimento in prima persona come cantante poteva pregiudicare non superficialmente il mio lavoro precipuo sugli attori e sulla messa in scena in generale. Esercitare un solo ruolo permette di concentrare l’impegno lavorativo e di finalizzarlo a dovere, ma soprattutto di accreditarti la stima e l’attenzione di chi è coinvolto nell’operazione, il quale riconosce in te un referente preciso. Quando si ricopre unicamente il compito di regista si instaurano dinamiche di comportamento e di relazione ben precise: si creano, insomma, le condizioni per proporsi con autorevolezza e determinazione ai cantanti-attori. Autorevolezza che forse la concomitante assunzione del ruolo amicale di collega-cantante avrebbe oscurato».
Cosa significa per Lei essere un buon regista d’opera?
«Partire essenzialmente dalla musica e dal canto e dalle necessità fisiologiche dell’emissione vocale; quindi, raccontare la storia narrata dal libretto, cercando di rapportarsi alla contemporaneità ma, soprattutto, speculando sempre sui personaggi e sul loro “gioco” per far emergere il più possibile la loro essenza profonda d’individui, di personalità complesse e spesso contraddittorie, nonostante la frequente inflessibilità dei caratteri che muovono le trame dell’opera lirica».
Ha un nume tutelare tra i registi del passato? E, attualmente, chi ammira?
«Ponnelle rimane un modello insuperato e dovrebbe essere il punto di partenza per ogni giovane che si cimenti nella professione, indipendentemente dal tipo di estetica assunta. Tra i registi con cui ho lavorato spesso, ammiro incondizionatamente David McVicar e Graham Vick. Ci sono molti giovani talenti tra i registi delle ultime generazioni; diciamo che preferisco quelli italiani a quelli… germanici».
Com’è, quindi, il Suo rapporto con la Regietheater di stampo tedesco?
«Abbastanza conflittuale. Ma, da buon professionista quale cantante, non cerco assolutamente di stravolgere il lavoro fatto da altri, anche se spesso lo trovo gratuito, inconcludente ma, soprattutto, sciatto e avulso dalla colonna sonora. Credo che sia penoso il fatto che il pubblico d’oltralpe debba spesso sopportare allestimenti che detesta in toto ma che accetta di vedere forse per la presenza di qualche beniamino».
Cantante, regista, insegnante di canto in masterclass e non solo. Come vede ripartito il Suo futuro tra queste diverse carriere? E poi ci sarebbe sempre quel sogno nel cassetto di dedicarsi alla prosa, magari goldoniana…
«Mi piace insegnare e mettere a disposizione la mia esperienza: lo faccio con grande entusiasmo e consapevolezza, pensando agli infiniti ostacoli che il giovane cantante lirico deve affrontare per sperare nella prospettiva di un qualche sbocco nella carriera professionale. Col tempo mi piacerebbe concentrarmi maggiormente sul lavoro di regista, non solo di opera ma anche di teatro dialettale veneto, che adoro e che conosco da sempre».
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