Il regista Bechtolf riconcepisce per la capitale austriaca il proprio spettacolo nato a Salisburgo. L’equilibrata direzione di Boder sostiene un’ottima compagnia di canto, dove spiccano la Primadonna della Miller e il Compositore della Koch
di Francesco Lora
UN ALLESTIMENTO DI REPERTORIO, seminuovo o tutto nuovo? L’Ariadne auf Naxos di Richard Strauss, con la regìa di Sven-Eric Bechtolf, le scene di Rolf Glittenberg e i costumi di Marianne Glittenberg, è andata in scena nell’estate 2012 al Festival di Salisburgo, e nell’inverno successivo è passata all’Opera di Stato di Vienna. Ma là si dava la rara prima versione di Stoccarda 1912, dove un adattamento del Bourgeois gentilhomme di Molière, con le sue musiche di scena, precede l’atto con la storia di Arianna; qui si è invece data la corrente seconda versione di Vienna 1916, dove il Prologo con la parte del Compositore prende il posto di Molière, e dove intere parti del successivo atto sono riformulate. Uno stesso allestimento scenico, dunque, per due opere assai diverse. Va da sé che il regista Bechtolf, da Salisburgo a Vienna, ha radicalmente riconcepito il proprio spettacolo, con esiti assai felici in entrambi i casi; egli ha così preparato il miglior terreno possibile alle recite che, nel prossimo autunno, saranno dirette da Christian Thielemann all’Opera di Stato e che già si preannunciano come musicalmente memorabili. Intanto, si va a dire di quelle appena concluse, lo scorso aprile nella capitale austriaca (giorni 15-22).
La parte visiva cui si è già fatto riferimento, innanzitutto. L’ambientazione passa dal Settecento immaginato da Hugo von Hofmannsthal a un Novecento inoltrato e in vena postmoderna. Gesto immediato, spigliato e giovanile per tutti; ironia e autoironia a non finire, con controscene sempre risolte nel rispetto della parole della musica; finto trovarobato che rivela invece studiatamente, nelle scene e nei costumi, il carattere dei personaggi e la morale dei luoghi d’azione. Così, basta la grande vetrata sul fondo per dare l’idea della dimora beata e del teatro privato di un mecenate; gli scogli tra i quali si lamenta Arianna, rivolta al pubblico in scena e spalle a quello in sala, sono casse di pianoforti schiantati, quasi a evocare le goffaggini scenografiche che tanto odierno teatro non nel teatro va ostentando senza arrossire; e l’abito rosso a pois bianchi di Zerbinetta è, per una volta, la divisa di un personaggio straripante di vitalità, ma donna vera, non miniatura leziosa né svilita macchietta. La regìa musicale è invece nella mani di Michael Boder, direttore sempre in equilibrio tra l’attento sostegno al cantante e i doveri di una narrazione trascinante: sotto la sua bacchetta l’Orchestra dell’Opera di Stato segue complice il discorso anziché mordere il freno – trattamento abitualmente riservato a molti altri blasonati signori del podio – e restituisce ogni piega della partitura forse non con genialità assoluta, ma con una chiarezza di lettura che va a tutto vantaggio dell’opera in sé e della sua godibilità.
Il resoconto sulla compagnia di canto è innanzitutto un invito a tenere d’occhio il soprano Meagan Miller, eccellente Primadonna. Nell’avviare il grande monologo della principessa mitica, «Ein Schönes war, hieß Theseus-Ariadne», ella esita un poco di fronte al lungo vocalizzo d’avvio, e preferisce spezzarlo in due frasi, replicando le parole «ein Schönes» e perdendo un po’ del mirabile effetto predisposto da Strauss. Per il resto, è una protagonista immacolata come di rado se ne ascoltano: timbro luminoso, corpo importante, articolazione fluida, espressione accurata, recitazione sorridente. Magnifica, infine, è la metamorfosi della sua voce e del suo temperamento, di calibro in sé lirico, verso un peso più drammatico e un trasporto più esaltato nell’oneroso duetto finale con Bacchus. Quest’ultima parte, mediata da quella del Tenore, spetta alla voce grande, grossa e fibrosa di Stephen Gould, mentre Íride Martínez dà luogo a una Zerbinetta di irresistibile vivacità scenica, non prioritariamente versata nel virtuosismo stupefacente ma tuttavia a prova di sopracuti e coloratura.
Tutti risultano ben integrati nella macchina teatrale e musicale, dal quartetto delle maschere alle voci di Najade, Dryade ed Echo, ed è infine eccezionale la prova di Sophie Koch nei panni del Compositore: famosa per il suo Octavian nel Rosenkavalier, al punto di monopolizzare la parte in giro per il mondo, è tuttavia nell’Ariadne che ella tocca il proprio vertice interpretativo, con un fraseggio mai affettato e caricaturale – cosa dalla quale Quin Quin non va indenne – e al contrario fremente di adolescenza, tenero e insieme ambizioso, mutevole e sfumato a ogni frase, e veicolato da un’organizzazione vocale che calza come un guanto sulla scrittura straussiana, con un timbro che si mantiene omogeneo e rosseggiante da un capo all’altro della tessitura. Un esempio preclaro di grande interprete e di grande interpretazione.
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