di Attilio Piovano
Nuova prova alla regìa d’opera per Dario Argento: tra stretta adesione al libretto e personale cifra stilistica, tra gotico (dei costumi e scene) e pulp. Ottima performance del cast e in generale dell’orchestra, assai ben diretta da Giampaolo Bisanti
NOTEVOLE ERA L’ATTESA della donizettiana Lucia di Lammermoor, al Carlo Felice di Genova, con la regìa di Dario Argento, il mago dell’horror cinematografico, andata in scena la sera di sabato 21 febbraio 2015. E chi meglio di lui avrebbe potuto interpretare il clima gotico della più celebre, forse, tra le partiture romantiche del sommo operista italiano (con notevoli aperture sul futuro Verdi: «Chi mi frena in tal momento» e «Maledetto sia l’istante»). E le attese non sono andate deluse, non solo (o non tanto) per la regìa, peraltro fedele agli assunti del libretto, quanto per il complessivo ottimo livello dello spettacolo, sul versante musicale, del quale a lungo conserveremo memoria. E si è trattato di un’edizione davvero per così dire più che completa. Qui il merito, o quanto meno la scelta (di certo concertata con il regista) spetta al direttore d’orchestra Giampaolo Bisanti che ha optato – come si dice in gergo – per riaprire tutti i tagli consolidati da una lunga (e spesso niente affatto corretta) tradizione esecutiva. Ecco allora ripristinata l’aria di Raimondo (invero un po’ soporifera e soprattutto collocata in un momento dove obiettivamente raffrena la tensione), ripristinato il cosiddetto quadro della torre di Wolferag; non solo, Bisanti si attiene con scrupolo (in qualche caso fin eccessivo) ai da capo nelle cabalette (con esecuzione integrale, assai gravosa e impegnativa per i solisti). Bene la sintonia tra podio e palcoscenico, appena qua e là qualche scollamento ritmico (specie con il pur valido coro, ben istruito da Pablo Assante: qualche incertezza di assieme si è verificata ad esempio in apertura del grande concertato «Chi mi frena in tal momento» già poc’anzi citato, ma sono piccoli inconvenienti destinati ad andare a posto nel corso delle repliche).
Buona la concertazione e scrupoloso il lavoro certosino condotto sulla partitura. Bisanti ha potuto avvalersi di un’orchestra in buona forma, specie gli archi dal bel suono, gli ottimi violoncelli dal timbro pastoso, come pure un plauso all’arpista Marcella Lamberti per la liquida scioltezza con la quale ha affrontato il lungo preludio alla cavatina di Lucia e così pure un plauso sentito al flautista Francesco Loi, per aver tenuto testa ottimamente a Lucia nella scena della follia, dove il solo flauto duetta con la voce e non sempre è così scontato che i due interpreti siano in perfetta armonia e in quadro ritmicamente. Una compagine, quella orchestrale, che tuttavia deve ancora crescere, specie in alcune sezioni: gli ottoni, per esempio, bisognosi di maggior precisione e pulizia; sono risultate peraltro ottimamente incisive ed efficaci le trombe nella cabaletta di Enrico in apertura dell’opera. Bisanti ha saputo tenere alta la tensione raggiungendo momenti di notevole pathos nella scena introduttiva al famigerato “passo della follia”. Davvero convincente.
Molto bene le voci: successo personale sentitissimo per Desirée Rancatore che ha fornito una prova eccellente. Dotata di una tecnica strepitosa, non a caso punta più al virtuosismo delle coloriture che alla cifra drammatica come nella tradizione delle Lucie più vocaliste e belcantiste. Pazienza per qualche asprezza nel registro medio alto. Nelle cabalette varia con gusto e finezza (nei da capo) rivelando notevoli cadenze, ha inoltre buoni suoni filati ed è risultata eccellente nelle volatine e nell’impervio repertorio di sovracuti. Buona, per restare sul versante femminile, la prestazione di Marisa Ogii dalla voce scura e ben timbrata (nel ruolo da comprimario di Alisa). Le voci maschili. Molto solide le due voci scure di Stefano Antonucci (Enrico) e di Giovanni Battista Parodi (Raimondo), subentrato – quest’ultimo – all’indisposto Anastassov. Assai apprezzati anche sul piano scenico, pur in presenza di qualche ingenuità gestuale e di qualche atteggiamento fin troppo scontato e prevedibile. Buona (ancorché non buonissima) la prestazione del tenore Gianluca Terranova, anche sul piano dell’interpretazione e del fraseggio, qualche smagliatura nelle mezze voci e nel passaggio di registro, un po’ sopra le righe qua e là, ma di certo aitante e incisivo.
Ed ora la regìa che tante aspettative destava. Una regìa che si è attenuta al libretto in maniera abbastanza fedele, pur con qualche scelta non del tutto condivisibile ed opinabile. Per dire, il nudo integrale che se ne esce nella scena della fontana («Regnava nel silenzio») appare un po’ esornativo per non dire gratuito (l’alter ego di Lucia? Un fantasma? Un elemento onirico?). La scena si prefigura un po’ come un quadro preraffaellita o simbolista (in anticipo sulla debussiana Mélisande); ancora il nudo come contraltare della protagonista, ma stavolta in alto, dietro una balconata (peraltro assai apprezzata l’eleganza gestuale e la casta compostezza della pur fascinosa Fabiola Di Blasi). Discutibile la lampada primo Novecento per la scena di Wolferag, in un impianto del tutto tradizionale, con scene neogotiche (per il castello), iniziale bosco (più che giardino) con tanto di abitanti di Lammermoor, armigeri, dame e cavalieri con cani e via elencando. Criticabile l’immagine dell’accoltellamento, a vista come un fotogramma cinematografico (con tanto di urlo agghiacciante chissà perché di Lucia e non del povero Arturo, come invece da libretto «Un grido uscia come d’un uom vicino a morte») che finisce per togliere del tutto la tensione al successivo racconto dinanzi agli stupiti e agghiacciati astanti coreograficamente disposti sulla scalinata del castello.
Anche l’apparizione finale del fantasma di Lucia («Tu che a Dio spiegasti l’ali») forse si sarebbe potuta risparmiare; entrambi i casi citati rischiano di far torto all’intelligenza del pubblico e di limitare quanto invece deve restare nel regno dell’allusivo. Scelte peraltro del tutto prevedibili nella concezione drammaturgia di Dario Argento all’interno di uno spettacolo la cui cifra, pur aderente al libretto, mostra alcune ingenuità nella scelta delle scenografie (Enrico Musenich) e dei costumi (Gianluca Falaschi): neogotico l’impianto scenico, con costumi ottocenteschi, salvo quelli delle due donne, un po’ troppo oleografici («come uscite dalle figurine Liebig» commentava qualche mala lingua a termine serata con eccessiva cattiveria; come fate delle fiabe con lunghe capigliature; ma nelle scene di insieme i vestiti viravano tra il rosso ed il marrone con broccati e velluti). Memorabile la gestualità di Lucia nella scena della pazzia, «Spargi d’amaro pianto» e via dicendo (il suo vestito – era prevedibile – vistosamente grondante sangue come da horror e con Dario Argento c’era da aspettarselo), pazzia palpabile nel suo incedere scomposto fino a mimare il gettarsi nell’abisso. Il suo bamboleggiare di mentecatta ancor più terrificante grazie al gap coi ritmi balzanti e pimpanti della partitura.
Pubblico purtroppo un po’ scarso che pure al termine ha decretato un successo pieno (e meritato, si è detto) alle voci, specie la Rancatore. Qualche perplessità e dissenso (alcuni buu ed anche un paio di isolati fischi) all’insegna della regìa.