di Simeone Pozzini
IL PIANISTA MILANESE DAVIDE CABASSI inizia un percorso discografico che lo vedrà impegnato nella registrazione di quattro cd interamente dedicati alle sonate di Ludwig van Beethoven. Il primo di questa serie, da poco pubblicato, contiene le sonate op. 10 e la Patetica op. 13. Per la verità Cabassi aveva già registrato alcune sonate di Beethoven (op. 110 e le due dell’op. 27), ma si tratta ora di un più corposo e strutturato progetto per lasciare testimonianza di un autore che gli è congeniale, e del quale ha in repertorio anche i Concerti. Proprio in relazione alla nuova uscita discografica si svolge il nostro incontro.
Qual è la genesi di questa nuova operazione?
«Il progetto, nato insieme agli amici di Decca, si basa su quattro produzioni discografiche: dovrebbero essere quattro dischi che girano intorno a delle sonate particolarmente significative e anche particolarmente popolari. La Patetica nel primo caso e l’Appassionata nel secondo, le due Sonate quasi una fantasia e la Tempesta cercando di contestualizzarle all’interno del loro periodo storico e cercando di farle seguire o precedere da sonate coeve, provando a capire in che momento e in che ambito della produzione beethoveniana queste gemme conosciutissime siano fiorite.
Cosa rappresentano per lei queste sonate?
«Su di me le sonate op. 10 hanno sempre esercitato un fascino particolare, perché si tratta di un Beethoven nella fase di transizione, dalla scuola haydniana alla definizione della sua piena personalità. Sono di trasformazione e sono un punto di arrivo: la Patetica è veramente una chiave di volta. Ha un primo tempo con una struttura davvero innovativa e un terzo, il Rondò, che forse è il movimento più haydniano di tutte le sonate che sono presenti nel disco».
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Nel Beethoven della cosiddetta “prima maniera” alcune pagine, ad esempio quelle dell’Adagio dell’op. 7, possono davvero andare oltre la definizione stilistica temporale e congiungersi invece ad un Beethoven, per così dire, “più assoluto”.
«Assolutamente. Mi viene in mente subito il secondo movimento dell’op. 10 n. 3, che è il primo enorme Adagio beethoveniano, che per certi versi prefigura ed annuncia quelli che saranno i grandi adagi dell’ultimo periodo. Le definizioni, di certo, servono per inscatolare la produzione di grandi musicisti, ma nel caso di Beethoven qualcosa sfugge sempre. Anche il Beethoven della “prima maniera” è già un personaggio che cerca di rompere gli schemi. Quello che mi affascina di queste tre sonate è che pur rientrando in un certo modo nella struttura formale classica cercano, per l’appunto, già di rompere queste barriere, queste pareti della forma. La tigre beethoveniana si sente stretta in questa gabbia. La struttura dell’op. 10 n. 2 è straordinaria, non c’è un adagio, c’è un movimento centrale che è una sorta di Scherzo/Minuetto. Si sente che Beethoven sta già iniziando a sentirsi stretto all’interno delle regole classiche e cerca quindi di forzarle, per crearne di nuove».
È interessato, per ciò che riguarda il repertorio per pianoforte solo, alle composizioni di Beethoven che affrontino altri aspetti dell’espressività e della forma? Penso alle Bagatelle op. 126
«Sono sicuramente interessato, sono capolavori assoluti specialmente l’op. 126 sono uno dei riferimenti principali del mio repertorio».
Ha in qualche modo ricercato un’idea sonora particolare nell’interpretazione di queste sonate? Ovvero, ritiene che Beethoven nella composizione di queste pagine pensasse al pianoforte come punto d’arrivo oppure lo utilizzasse per dare forma ad una scrittura cameristica o sinfonica?
«Se su Mozart avevo delle certezze assolute, ovvero tutta la produzione strumentale mozartiana per me è riferita all’opera, su Beethoven e su queste sonate in particolare la situazione è più sfumata e controversa. Senz’altro ci sono tanti riferimenti orchestrali, più volte nella registrazione stessa ho cercato di riprodurre e di immaginare un suono che non fosse prettamente pianistico. Però sono sonate assolutamente pianistiche, nelle quali Beethoven inizia a confrontarsi con uno strumento che è praticamente quello moderno, che ha delle caratteristiche peculiari. Sono sonate davvero scritte per lo strumento: è forse questa la grande differenza rispetto alla sonorità o quanto meno alla mia idea di interpretazione mozartiana».
A proposito della modernità strumento, Lei ritiene che l’accordo di Do minore iniziale della Patetica su un fortepiano dell’epoca fosse più vicino a un cluster, quindi con un’idea sonora visionaria, o forse a un Tutti orchestrale? Qual è la sua idea di questo incipit?
«Sono certo che alle orecchie degli ascoltatori dell’epoca un inizio del genere dovesse suonare come urticante, straordinariamente sorprendente. Ho provato a suonare su dei pianoforti dell’epoca e naturalmente il suono è molto più corto rispetto al pianoforte moderno. Per questo l’accorgimento sul pianoforte moderno, per quel che riguarda questo accordo fortissimo-piano, è quello di avere un attacco molto veloce che poi decada in modo da introdurre la sonorità del piano successiva. Non credo che Beethoven avesse in mente un’idea orchestrale, anche perché un accordo scritto in questa maniera, molto compatta, suonava davvero come un colpo straordinariamente scioccante e penso che l’effetto dell’inizio di questa sonata debba essere proprio così: sorprendente e sconvolgente».