Con la direzione di Dante Santiago Anzolini è andata in scena a Torino e a Milano la terza opera del compositore americano. Successo di pubblico per entrambe le recite
di Luciana Galliano foto © Gianluca Platania
IL FESTIVAL MITO HA PRODOTTO, se pur in forma di concerto, la prima esecuzione italiana dell’opera Akhnaten (1983) di Philip Glass, andata in scena la prima volta a Stuttgart nel 1984, terza opera dopo Einstein on the beach (1974) e Satyagraha (1980), a completare con il tema della religione una trilogia dell’esistenza umana in cui erano già stati affrontati nelle precedenti opere i temi di scienza e politica. Inoltre, in un incontro con Gaston Fournier Facio, coordinatore artistico del Teatro alla Scala, il direttore Dante Santiago Anzolini (già direttore della prima al Met dell’opera Satyagraha) e il musicologo Giangiorgio Satragni è stato presentato il libro Parole senza musica, tempestivamente tradotto da Il Saggiatore, in cui Philip Glass racconta la propria storia di ragazzo precoce di Baltimora, figlio del proprietario di un negozio di musica e di una bibliotecaria, entrato all’università all’età di quindici anni prima di passare alla Juilliard School of Music e poi partire per Parigi, per studiare sotto la mitica Nadia Boulanger e infine stabilirsi definitivamente ed elettivamente a New York.
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Impossibile liquidare la musica di Philip Glass con l’accusa di essere ripetitiva (forse noiosa). Il suo quoziente di novità è indubitabile; la difesa di questa sua idea di musica – semplice, consonante, “congruente” come l’ha definita Anzolini – l’ha portato a fare qualsiasi lavoro per vivere continuando a comporre: l’idraulico, il tassista… quelli che in inglese si dicono blue-collar jobs, diversi dai white-collar’s…molto interessante. E il successo è infine arrivato, e gli arpeggi che si rincorrono sono diventati un pezzo vivo della musica contemporanea, con un posto speciale all’interno della corrente detta minimalista, accanto al più elaborato John Adams e al profondissimo Steve Reich.
Qualcosa ha affascinato il newyorkese Glass della figura di Akhnaten, il faraone sposo di Nefertiti che nel XIV sec. a.C. cercò di affermare in Egitto, senza successo, una religione monoteista e una nuova palingenesi sociale; messo a punto un libretto con l’aiuto di studiosi e filologi, Glass ci presenta, come è nel carattere delle sue opere, una narrazione spezzata, concentrata in momenti e quadri senza continuità, in un misterioso linguaggio antico, ove le scene sono legate da una narrazione originalmente in inglese e in questa edizione tradotta in italiano – affidata al coerentemente monocromo Valter Malosti.
La continuità, la “congruenza” come dice Anzolini, è solidamente fornita dalla musica, in cui un accordo-arpeggio è ripetuto sembrerebbe ad infinito ed invece ci mette diversi minuti per cambiare, e il meccanismo è sempre quello dell’inserimento di una nota estranea, di un tempo in più impercettibile e implacabile. Questo meccanismo, che si attaglia benissimo al racconto e alle immagini (e si ricorda il bel ruolo della musica di Glass in un film rivoluzionario come Koyaanisqatsi di Reggio) si riverbera anche nel trattamento delle voci, che spesso insistono su una cellula per poi a sorpresa scivolarne via– come nel bel duo fra Akhnaten e Nefertiti, seconda scena del secondo atto, o nella prima scena dell’atto terzo, in cui compaiono le sei figlie della coppia.
Forse abbiamo trovato più convincenti scene che compaiono dal secondo atto in poi anche perché è sembrato che la direzione o più probabilmente l’orchestra, che era quella peraltro buona del Teatro Regio di Torino, ci mettesse un po’ a carburare, a entrare nella necessaria incalzante leggerezza della musica. Brillante la scelta di affidare la parte del protagonista, un visionario, ad un controtenore, il bravo Rupert Enticknap, il cui timbro ben si assimila con quello di contralto di Nefertiti, Gabriella Sborgi. Facilmente brilla la suocera soprano, che aveva la bella voce di Valentina Valente; il novero dei registri vocali era completato da Mauro Borgioni, basso nella parte del padre di Nefertiti, e da Marcello Nardis, tenore nella parte del Sommo Sacerdote. Anche le parti corali, di una fissità davvero visionaria, ci sono risultate evocative e fascinose, ed era il coro del Teatro Regio di Torino istruito dal maestro Claudio Fenoglio. L’esecuzione in forma di concerto si adatta bene ad un’opera in cui poco accade e molto si disquisisce, e le foto di statue del Museo Egizio di Torino proiettate sullo sfondo: belle, certo, talvolta inutilmente didattiche. Successo strepitoso.
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