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«L’amico Fritz» a Venezia, l’ambizione (fallita) della leggerezza

di Cesare Galla
29 Maggio 2016
in OPERA
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Home OPERA
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di Cesare Galla foto © Michele Crosera


È difficile immaginare situazioni teatrali e musicali divergenti fra loro come quelle delle due prime opere di Pietro Mascagni. Tanto il debutto (Cavalleria rusticana, 17 maggio 1890) è denso, teso, passionale e ruvidamente avvincente, rapinosamente sintetico, quanto il lavoro che lo segue appena un anno e mezzo più tardi (L’amico Fritz, 31 ottobre 1891) si distende in un contesto espressivo che almeno nelle intenzioni vuol essere morbido e sfumato, sentimentale e lieve, sottile nell’elaborazione armonica e nella tavolozza coloristica proprio come evanescente risulta la vicenda. Dopo l’infuocato dramma a coltello di vigorose ascendenze letterarie, atto di nascita del Verismo operistico e suo immediato culmine, insomma, il non ancora trentenne compositore livornese svolta immediatamente verso il “mezzo carattere”, e sembra quasi voler realizzare il manifesto di un linguaggio che nella sua conclamata semplicità aspira in realtà a una certa quale sofisticata “modernità”.

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La contraddizione del Fritz sta proprio in questo, che l’ingenua e in fondo sorridente storietta del buon possidente che non vuol cedere alle lusinghe d’amore e alla dolce serenità del matrimonio, ma alla fine vi si abbandona lietamente, solo nei momenti migliori viene davvero musicalmente rivestita dalla semplicità, dalla trasparente immediatezza del canto e del colore. Questo avviene quando Mascagni lascia scorrere la sua fluida vena melodica, quando non tarpa la schiettezza con la “dottrina”, quando non vuole costruire densità melodrammatiche sul nulla di questo libretto, come invece succede specialmente dalla metà del secondo atto fin quasi alla fine. Qui le semplici, anche ingenue schermaglie amorose dei due protagonisti diventano – complice la retorica non più controllata – uno psicodramma del tutto immotivato se si rimane alla semplicità del libretto. Il mutamento di registro si riflette nel passaggio da una strumentazione trasparente e ricca di effetti naturalistici a una che ricorda molto Cavalleria, che lavora per accumulo, affiancata da un canto che improvvisamente recupera i moduli veristi dopo avere indugiato in forme quasi operettistiche, e si accende di una passionalità contraddittoria rispetto alla leggerezza precedente. E immotivata rispetto a quanto sta accadendo in scena. Non per niente, uno che se ne intendeva, il severo “patriarca” Giuseppe Verdi (che di lì a poco sarebbe arrivato all’ultimo approdo di Falstaff, portato al debutto nel 1893), dopo avere osservato che mai gli era capitato di leggere «un libretto scemo come questo», dettava l’epitaffio dell’Amico Fritz: «Mi sono stancato presto di tante dissonanze, di quei rapporti falsi di modulazione, di tante cadenze sospese e di tanti cambiamenti di tempo, quasi ad ogni battuta». Conclusione? «L’accento… non scolpisce mai al vero la situazione», e «i caratteri non sono mai ben disegnati».

Operina disimpegnata quanto melensa, evanescente abbastanza per incrociare il nascente gusto piccolo borghese dell’Italietta umbertina prima che Puccini ne individuasse gli umori trasgressivi, drammatici e anche oscuri, L’amico Fritz ha una sua storia di buone accoglienze agli esordi e di tenace tenuta nella zona marginale del repertorio, assicurata da qualche pezzo celebre, come il Duetto delle ciliegie, nazionalpopolare abbastanza per arrivare anche alla ribalta televisiva nei primi anni ’60, grazie all’inopinato duo Magda Olivero-Claudio Villa (che si può recuperare su You Tube). Oggi sembra difficile pronosticare che questa situazione si prolunghi più di tanto: l’edizione in scena in questi giorni alla Fenice giunge nel “gran teatro” veneziano a 60 anni netti dall’ultima apparizione di un titolo, che in Veneto, prima, aveva trovato spazio nell’ormai lontano 2001, quando era stato proposto al Filarmonico di Verona con Andrea Bocelli nel ruolo del titolo.

Per pagare il suo obolo all’opera minore italiana di fine Ottocento, la Fenice ha puntato su Simona Marchini, eclettica teatrante appassionata di melodramma, che già un quarto di secolo fa, per il centenario, si era cimentata con L’amico Fritz. Dentro la semplice scena di Massimo Cecchetto, che mette in cornice lignea la vicenda e gioca con qualche sfondo fotografico o in animazione video, la Marchini regola l’azione per quel che di azione esiste, cioè quasi nulla. Lo spettacolo si basa sulla sensibilità attoriale dei protagonisti (abbigliati piacevolmente in uno stile generico-Ottocento da Carlos Tieppo), sulla meccanicità dei gesti, sulla efficacia dei sorrisi o delle imbronciature. Insomma, evitando di aggiungere significati inesistenti, la regista romana ha preferito giocare la carta di una programmatica semplicità, lineare e senza retro-pensieri, giustamente lasciando al direttore Fabrizio Maria Carminati l’ingrato compito di compendiare le contraddizioni e le mal indirizzate ambizioni musicali di Mascagni. L’esecuzione ha avuto, come non può non essere, due volti: trasparente e non senza qualche tocco di eleganza nel primo atto, con buone evidenze strumentali; massiccia e pletorica a partire dalla metà del secondo atto, con notevole volume di suono e fraseggio congestionato, ma inevitabilmente un po’ sommario, com’è tipico del compositore livornese.

La compagnia di canto era di ottima levatura e ha ben sostenuto il gioco specialmente nelle due parti principali. Alessandro Scotto di Luzio ha giocato la carta della leggerezza, inizialmente, salvo trovare peso e drammaticità adeguati alla “virata” del personaggio, breve tempesta che lascia subito il sereno. Il suo colore è interessante e ben giocato nelle sfumature, l’acuto pronto e controllato. Discorso analogo per Carmela Remigio, una Suzel bamboleggiante che canta comunque benissimo, sale all’acuto con disinvoltura e pienezza timbrica ed esprime la sua piccola burrasca sentimentale con ricchezza espressiva, senza cercare di attenuare le contraddizioni drammaturgiche, ma anzi cavalcandole con ingenua partecipazione. Al loro fianco, il rabbino David ha avuto l’eleganza più mondana che religiosa di Elia Fabbian, mentre il mezzosoprano Teresa Iervolino ha offerto buona evidenza agli spunti cantabili che Mascagni affida al ruolo “en travesti” dello zingaro Beppe. Precisi i comprimari, William Corrò, Alessio Zanetti e Anna Bordignon.

Cordiale accoglienza alla prima, repliche fino al 4 giugno. Da venerdì 3, l’opera sarà visibile in streaming all’indirizzo www.culturebox.fr.

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Cesare Galla

Cesare Galla

Scrive di musica dall'età di 20 anni, quando ancora seguiva gli studi musicologici nelle università di Bologna e Venezia, dopo il liceo classico. A 25 è diventato giornalista professionista e ha lavorato al Giornale di Vicenza come redattore, caposervizio e vice caporedattore fino al dicembre del 2014.Si è occupato di cronaca nera e bianca, di politica, di web e mondo digitale e soprattutto di spettacoli e cultura, guidando fino al 2012 le pagine ad essi dedicate. Contemporaneamente, ha sempre svolto la critica musicale, dal 1996 anche sul quotidiano veronese L’Arena. Negli ultimi 40 anni ha recensito migliaia di concerti e centinaia di rappresentazioni operistiche e ha pubblicato alcuni libri (sulle Sinfonie di Beethoven, sulla storia della Società del Quartetto di Vicenza, sul festival Settimane Musicali al teatro Olimpico, sulle rappresentazioni verdiane nel Veneto, raccontate attraverso cinque lustri di recensioni). Oggi collabora da "cronista di musica" e osservatore del mondo della cultura con Il Corriere Musicale, con il magazine culturale on line Doppiozero e con il quotidiano on line Tag43. Il suo sito personale d'informazione, musicale ma non solo, è www.cesaregalla.it.

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