di Ruben Vernazza foto © Gianni Cravedi
PROGETTO MERITORIO quello messo in atto dal teatro Municipale di Piacenza con Opera Laboratorio. Da tre anni la locale stagione lirica viene inaugurata con un titolo classico del repertorio italiano ottocentesco, interpretato da una compagnia vocale low cost, composta interamente (o quasi interamente) da giovani cantanti agli inizi della carriera: selezionati tramite audizioni, prima di debuttare sul palcoscenico piacentino questi seguono un corso di formazione tenuto dal celeberrimo baritono Leo Nucci, padrino del progetto e regista di ognuna delle tre opere montate dal 2014 ad oggi. Dopo aver proposto L’elisir d’amore e L’amico Fritz, quest’anno la scelta è caduta su Un ballo in maschera, presentata al pubblico venerdì 7 ottobre (nei prossimi mesi l’allestimento sarà ripreso a Ravenna e Ferrara).
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Opera fra le più frequentate del catalogo verdiano, affrontata nel corso degli anni da mostri sacri della lirica mondiale (chi voglia ascoltarne una registrazione magistrale può ricorrere a quella firmata nel 1983 da Georg Solti, con Margaret Price, Luciano Pavarotti e Renato Bruson nei ruoli principali), Un ballo in maschera rappresenta un banco di prova assai impegnativo per i suoi interpreti – da far «venire i brividi», come afferma Nucci nelle Note di regia contenute nello smilzo programma di sala. L’intreccio di registri drammatico-musicali, che dell’opera rappresenta il tratto più caratteristico (secondo una definizione di Emilio Sala, Un ballo in maschera è «commedia tragica o tragedia comica»), richiede agli esecutori un alto grado di duttilità – nel caso dei cantanti sia vocale che attoriale. La capacità di padroneggiare tanto il linguaggio comico quanto quello tragico, di passare da uno all’altro in modo fluido e, quando necessario, di amalgamare in modo credibile il primo col secondo, è di raro innata: essa, di solito, matura col tempo e con la pratica.
A mero titolo di esempio, si confrontino due versioni (entrambe facilmente reperibili nel web) del quintetto del primo atto « È scherzo od è follia », con Placido Domingo nei panni di Riccardo: la prima, del 1975, con Abbado alla guida della Royal Opera House Orchestra; la seconda, del 1990, con Solti a capo dei Wiener Philharmoniker. Sarà facile notare l’evoluzione musicale e drammatica che – anche a prescindere dalle scelte direttoriali e registiche – a distanza di quindici anni Domingo imprime al suo personaggio: dopo che la maga Ulrica gli ha predetto la morte «per man d’un amico», il Riccardo del 1975 mostra quasi esclusivamente il suo volto di incredulo guascone; quello del 1990, invece, oscilla fra ilarità e turbamento, scetticismo e timore. In altre parole, benché l’interprete sia lo stesso, i Riccardo sono due: unidimensionale il primo, a tuttotondo il secondo.
Ora, forse proprio per la giovane età degli interpreti, non sempre la complessità drammatica di Un ballo in maschera è riuscita ad emergere nel corso della recita piacentina. L’aspirazione a far convivere in maniera efficace comico e tragico è rimasta talvolta in nuce, e alcune delle scene in cui la sovrapposizione dei due registri è più pregnante – come il finale del secondo atto, dopo il disvelamento di Amelia – sono apparse appiattite. Di contro, quella stessa gioventù che impediva al dramma di stagliarsi in tutta la sua complessità, ha impresso all’interpretazione una freschezza e una caparbietà lodevoli. Vincenzo Costanzo, nel ruolo di Riccardo, possiede timbro rotondo e fraseggio pulito; pur risparmiandosi qua e là (specie negli assieme), ha indovinato i brani solistici – su tutti la romanza “Ma se m’è forza perderti”. Agile e precisa, Paola Leoci ha tratteggiato un Oscar centrato sia a livello vocale che attoriale, mentre Mariano Buccino e Cristian Saitta, nei panni rispettivamente di Samuel e Tom, sono risultati corretti dal punto di vista musicale ma un po’ insipidi scenicamente. Poco convincente l’Ulrica di Agostina Smimmero, la cui voce è apparsa ingolata e debole nel registro grave.
A far da chiocce a questi cantanti (nessuno dei quali superava i trent’anni d’età) figuravano nel cast due artisti più navigati: Susanna Branchini e Mansoo Kim. La prima è un’Amelia appassionata ed espressiva, dal timbro bronzeo e dal volume copioso; il secondo, nei panni di Renato, ha mostrato una voce netta e omogenea, benché leggera nel registro acuto, e un fraseggio a tratti rigido. Officiante dell’esecuzione era Donato Renzetti: oltre ad irreggimentare le occasionali esuberanze delle voci soliste e del Coro del Municipale, il direttore abruzzese ha guidato con mano cauta ed esperta l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, riuscendo talvolta a squadernare begli effetti sonori (ottimi, in particolare, alcuni “scoppi” degli ottoni). A livello visivo, si è puntato su un allestimento tanto tradizionale quanto efficace: le scenografie di Carlo Centolavigna ed i costumi di Artemio Cabassi collocavano l’opera nella sua ambientazione originale, ovvero la Boston di fine Settecento, senza alcuna concessione ad anacronismi o simbologie; i movimenti scenici e la gestualità attoriale scelti da Leo Nucci, pur nella loro convenzionalità, ben rispondevano alle esigenze del dramma.
Al calare del sipario, il numeroso pubblico ha tributato a tutti gli artefici dello spettacolo applausi generosi. Riconoscimento meritato per un allestimento che, pur non esente da difetti, ha tenuto fede ai princìpi sui quali Opera Laboratorio è edificato: buona qualità artistica, costi contenuti e didattica di alto livello.
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