di Francesco Lora foto © Roberto Ricci
DOPO ESSERE STATA SBALZATA a titolo inaugurale della stagione corrente, alla Scala di Milano, la Giovanna d’Arco di Giuseppe Verdi pare non essere più la stessa. Iperstimata dal compositore, che all’indomani della creazione la riteneva il proprio capolavoro, ha avuto una circolazione limitata anche per difficoltà di allestimento (le situazioni sono talvolta di complessa realizzazione scenica) e di esecuzione (le forze orchestrali devono essere ingenti, la parte protagonistica è oltremodo impervia). Lo spettacolo milanese dello scorso Sant’Ambrogio ha non solo entusiasmato in sé, facendo strame di ogni ostacolo o indugio, ma anche ha attirato l’attenzione generale sul titolo raro, procurandogli una popolarità che – effimera o duratura, comunque effettiva – sarebbe stata prima impensabile. Sotto occhi e orecchi nuovi cade dunque la Giovanna d’Arco ora in scena al Festival Verdi, per quattro recite dal 2 al 20 ottobre nel Teatro Farnese di Parma.
[restrict paid=true]
L’architettura teatrale dispensa e tradisce, secondo i casi: l’antica e superba sala per gli spettacoli di Stato del duca soffre di pessima acustica, la quale viene un poco corretta invertendo lo spazio per gli attori con quello per il pubblico; ma la pianta all’italiana con gradinata degradante e recinto di serliane diviene in tal modo una scena magnifica, astratta, obbligata. Lì ha luogo il lavoro dei registi Saskia Boddeke e Peter Greenaway, del videoeditor Elmer Leupen, della scenografa Annette Mosk, della costumista Cornelia Doornekamp, del datore luci Floriaan Ganzevoort, del videodesigner Peter Wilms e della coreografa Lara Guidetti: uno spettacolo di pressoché nessuna indagine drammaturgica e psicologica, poiché suscitato da suggestioni scoordinate e realizzato con proiezioni di retroguardia tecnologica, lasciando di fatto immobili attori e masse, e sottraendosi al compito di narrare, spiegare, figuriamoci azzardare.
Una menda pesa sul discorso musicale: non è qui adottata l’edizione critica, col ripristino del testo letterario originale, bensì quella corrente, che con i connaturati errori si porta dietro un libretto zeppo di censure; censure sempre banalizzanti, talvolta ridicole, oggi non più accettabili e meno che mai nella più blasonata rassegna specialistica dedicata a Verdi. Tolto questo, sono buone notizie sulla lettura di Ramon Tebar: alla testa dell’orchestra “I Virtuosi italiani” egli è concertatore di ragguardevole polso tecnico, attentissimo alla ricchezza del materiale sinfonico; di quest’ultimo mette in rilievo alla pari, come direttore, il forbito dialogo tra i legni e la sferragliante bellicosità quarantottesca, incorniciando il canto con un accompagnamento tolto alla subordinazione di comodo. Un Verdi tutt’altro che di routine, esentato da tagli, aperto alle puntature, idealmente coadiuvato dal Coro del Teatro Regio e dal suo maestro Martino Faggiani.
Niente divi del canto nella locandina, ma buoni professionisti con i quali mandare in porto l’operazione. La candidatura di Vittoria Yeo alla temibile parte di Giovanna, così, risulta più un tentativo sornione di completare la lista degli interpreti che una scelta ponderata, consapevole e appagante. Si tratta di un soprano leggero disponibile a reggere parti di onere drammatico; in dote reca la luminosità di timbro e un peso in sé non inadeguato; mancano però l’energia dell’agilità, la facilità del registro acuto e la capacità di farsi personaggio in faccia all’inerzia registica. Senza brividi ma onesto è a sua volta l’apporto del tenore Luciano Ganci come Carlo VII: cantabile non struggente ma impegnato, mezzi usati con generosità fino a solidi acuti. Molto valido il Giacomo di Vittorio Vitelli, per morbidezza d’emissione, omogeneità di timbro e misura di stile: verso di lui in particolare si protende l’orecchio del musicofilo, mentre il Farnese dissipa rapido la bella prova canora.
[/restrict]