La composizione di Filippo Perocco, in prima assoluta, ha inaugurato la Stagione Lirica e Balletto 2016-17 del Teatro la Fenice, in ricordo della tragica alluvione del 1966
di Cesare Galla foto © Foto Michele Crosera
IL SISTEMA DELLA LIRICA in Italia sembra avviato ad una traumatica palingenesi. Tempo sei mesi, e la delega in mano al governo per la riforma del settore potrebbe cambiare drasticamente il panorama dei teatri d’opera, riducendo decisamente il numero delle Fondazioni ammesse a percepire i pubblici contributi del FUS e creando una nuova categoria, i “teatri lirico-sinfonici”, costretti invece arrangiarsi da soli, autofinanziandosi. Si potrebbe essere, insomma, agli ultimi giorni di Pompei e com’è tipico in questi casi, la percezione del pericolo non è diffusa fuori dal ristretto cerchio di chi è coinvolto in prima persona. Un segno di mobilitazione si è colto in occasione dell’inaugurazione della stagione della Fenice: manifestazione con rappresentanza dei dipendenti di numerose Fondazioni in Campo San Fantin, la sera dell’apertura; lettura di un comunicato dettagliato e molto pessimista prima di ogni replica, con precisazione sul numero dei posti di lavoro già ora svaniti, più di 150.
In una situazione del genere, il progetto del sovrintendente Cristiano Chiarot aveva il sapore della sfida: il contemporaneo nel “sacro recinto” della lirica di tradizione. E sia pure in un teatro che alla musica del presente ha sempre storicamente dedicato attenzione e continua a farlo, tanto è vero che la stagione precedente si è conclusa poche settimane fa sul palcoscenico del Malibran con una novità per l’Italia di Giorgio Battistelli, Il medico dei pazzi. Alla fine, vista la risposta entusiastica del pubblico, una dimostrazione di vitalità per un genere troppo spesso dichiarato in procinto di estinguersi.
In questo caso, l’idea era quella di sottolineare il cinquantenario della disastrosa acqua alta che sommerse Venezia il 4 novembre 1966 con un’opera nuova, Aquagranda. La commissione puntava a metteree in gioco energie e competenze tutte ad alto tasso di venezianità, o perlomeno di venetità, a livelli diversi di qualità o almeno di notorietà sulla ribalta internazionale. Era un rischio anche affiancare a un compositore di solido artigianato e di interessante pensiero come Filippo Perocco, che non appartiene ancora alla prima linea della musica contemporanea italiana, una riconosciuta stella internazionale della regìa d’opera, Damiano Michieletto. Il risultato è parso chiaramente premiare il metodo della collaborazione totale sulla creazione nascente, ambito di un’interazione totale che ha coinvolto anche gli autori del libretto.
Aquagranda racconta la grande alluvione di Venezia dall’avamposto – vicino eppure sperduto – dell’isoletta di Pellestrina, la prima ad affrontare la grande onda dell’Adriatico sospinto dalla Scirocco a causa della enorme falla negli storici “murazzi”, secolare protezione della laguna. Il punto di partenza è una romanzo “dal vero” del giornalista Roberto Bianchin, che su alcuni personaggi reali di Pellestrina focalizza la sua narrazione del disastro. Lo stesso Bianchin ha messo mano al libretto con la collaborazione di Luigi Cerantola: un testo adeguato alla drammaturgia musicale nella sua polarità fra schietto confronto dei personaggi di fronte al disastro che incombe (i pescatori, le loro mogli, il farmacista, il maresciallo dei carabinieri…) e poetica riflessione sulla parola, fra evocazione, allitterazione, descrizione.
Su di esso, Perocco ha costruito una partitura densa e coinvolgente, nella quale le stratificazioni stilistiche – per quanto un po’ troppo “evidenti”, quasi un catalogo di molteplici indirizzi nella musica degli ultimi settant’anni e più – hanno comunque tutte una funzione espressiva di grande coerenza teatrale. Il disegno formale è quello di un climax che dal timore della rotta porta al dramma vissuto da chi a stento salva la pelle sotto l’urto delle acque prima di stemperarsi nel sollievo per lo scampato pericolo con la speranza di un nuovo inizio. È un percorso drammatico, che si risolve in gradienti progressivi di coinvolgimento da parte di chi ascolta.
L’aumentare e poi lo sciogliersi della tensione sono sottolineati da soluzioni intriganti specialmente sul piano vocale, sia per la scrittura corale – densa di polifonia e virtuosisticamente declamatoria – sia per quella solistica, che dal canto di conversazione spezzato e fremente si innalza a soluzioni di arcaico madrigalismo assai ben costruite, per svettare nel vero e proprio exploit belcantistico richiesto a una delle protagoniste, la moglie di un pescatore, Lilli. Il tutto è accompagnato e sottolineato da scelte strumentali mai banali, che puntano su tinte livide e raggelanti come la natura lagunare durante la tempesta, e non esitano a ricorrere al supporto dei live electronics nell’interludio al quale, poco oltre il centro focale della rappresentazione, è affidata la “rappresentazione” dell’alluvione. Senza effetti mimetici, ma con forte connotazione psicologica nella voluta asprezza percettiva.
Dentro e intorno a questa partitura fremente, Damiano Michieletto costruisce uno spettacolo che va annoverato fra le sue riuscite migliori. L’acqua ne è protagonista assoluta, oltre la dimensione letterale e musicale delineata da libretto e partitura, con soluzioni tecniche (e idrauliche…) davvero efficaci. Una parente trasparente, di vetro, prima appoggiata e poi sospesa sopra le teste dei personaggi, oltre a essere lo schermo per alcuni video e fotografie d’epoca di grande impatto, è anche il contenitore dell’acqua che cresce un po’ alla volta. Dalla platea vedi l’acqua che sale dietro al vetro, vedi le onde diventare distruttrici e scaricarsi letteralmente su chi sta sotto, cantanti e mimi, in una pioggia devastante. Una cascata impressionante, che trasforma la scena in una sorta di laguna in cui tutti sguazzano, il contrappunto materico di quanto la musica va delineando senza effetti imitativi ma con grande forza drammatica. Fondamentale come sempre il contributo dello scenografo Paolo Fantin e della costumista Carla Teti, abile a restituire il popolare anni ’60 negli abiti da lavoro o “da festa” della povera gente.
Sotto la direzione di Marco Angius, specialista del contemporaneo, l’orchestra della Fenice si è proposta con sensibile adesione alla multiforme gamma coloristica disegnata da Perocco, fra percussioni varie, il pianoforte preparato, strumenti spinti spesso fuori tessitura. L’esecuzione è risultata coesa, fremente e spesso spinta verso dinamiche tese, di notevole forza espressiva.
La compagnia di canto si è confrontata alla grande con la complessa scrittura vocale dell’opera, facendo sfoggio di naturalezza sia nel franto canto di conversazione prescritto dall’autore sia nel declamato. Su tutti il giovane soprano Giulia Bolcato, che ha sostenuto l’ardua parte di Lilli con tagliente nitidezza e precisione nelle frequenti incursioni in sovracuto e con una musicalità sempre di alto livello. Molto bene anche Silvia Regazzo nei panni di Leda, altra donna di Pellestrina, il basso profondo Andrea Mastroni, che offre corpose incursioni nel grave al personaggio del pescatore Fortunato. In parte, musicalmente e vocalmente inappuntabili, Mirko Guadagnini (Ernesto), William Corrò (Nane), Marcello Nardis (Cester) e Vincenzo Nizzardo (Nane), tutti in scena dopo lo scampato pericolo per un sofisticato finale all’antica, che offre linee polifoniche suggestive e complesse.
Straordinario per colore, calore e fremente partecipazione il coro della Fenice, istruito da Claudio Marino Moretti. Michieletto lo dispone su due contrafforti ai lati della scena, uomini da una parte e donne dall’altra, una soluzione quasi da sacra rappresentazione, che sottolinea il carattere insieme epico e rituale con cui Aquagranda ripercorre una dolorosa pagina di vita vissuta.