Al Teatro Massimo applausi e commozione per la messinscena firmata da Robert Carsen e sostenuta da un ottimo cast vocale
di Santi Calabrò
Mai sulla scena dell’opera appare un personaggio più incline al perdono di Jenůfa: persino lo Stiffelio verdiano nel confronto con l’eroina di Janáček risulta un principiante. Apparentemente smodata, la clemenza di Jenůfa si incardina nell’ethos dell’azione operistica e ne costituisce la chiave di volta. In colpa dall’inizio – incinta e non sposata – Jenůfa è tutta presa dal flusso vitale del suo primo amore per il fatuo Steva: la “perdonite” è l’altra faccia della sua innocenza di fondo, e infatti diversamente dagli altri personaggi non conosce i tormenti del pentimento, se pure accetta da vittima sacrificale le conseguenze dei contrasti tra i suoi sentimenti e l’ordine morale, sociale, religioso.
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Da qui la sua superiore misericordia (Jenůfa finirà per sposare colui che l’ha sfregiata per gelosia e perdonerà la matrigna, rea dell’assassinio del bambino “illegittimo”): unica apparente nota di irrealtà proprio al centro di un’opera in cui il “realismo” puntiglioso, partendo dalla ricerca di una vocalità modellata sulla prosa, si diffonde nella fisionomia drammaturgica, dove il tempo teatrale per lunghi tratti si sincronizza con quello degli orologi, e invade anche la psicologia, visto che almeno tre personaggi (la Sacrestana, Jenůfa e Laca) risaltano con una mobilità che esula dalla rigidità del “tipo”. L’allestimento in scena al Massimo di Palermo si sintonizza sul punto di vista della protagonista: la regia, che sottolinea con discrezione ma coerenza la tesi umanissima dell’accettazione del fato e della speranza di segno fideistico, risulta persino commovente.
Spettatori che si dichiarano capaci di ciglio asciutto di fronte a Mimì e a Violetta confessano di non potersi trattenere nel loro primo incontro con Jenůfa! A Palermo, oltre a sollecitare lacrime, Jenůfa riceve tanti applausi: la ripresa di una produzione di Anversa (Vlaamse Opera) si avvale della direzione di Gabriele Ferro – che ha i suoi punti di forza nel saldo ritmo di insieme, con lucidità si direbbe “sinfonica”, e qualche menda annotabile nel tenere in poco conto la percepibilità del canto quando la trama orchestrale si fa molto densa – ma è l’allestimento a imporre il timbro dello spettacolo: sul piano inclinato perimetrato da porte-finestre che creano gli ambienti domestici o delimitano gli spazi pubblici, il regista Robert Carsen fa muovere i personaggi accentuando i loro sentimenti, e in questo senso molto contribuiscono i costumi di Patrick Kinmonth, borghesi e “moderni” piuttosto che evocatori di una arcaicità rurale intrisa di archetipi violenti e costrittivi.
Kostelnička Buryjovka, la matrigna sacrestana, è vestita da vedova, come una qualsiasi donna segnata dalla vita; il pubblico è indotto a vederla sin dall’inizio per come la vede alla fine Jenůfa – una madre infelice e indurita che agisce per il bene anche quando opera il male supremo – e perciò restano sottotraccia le ascendenze e connotazioni più terribili di matrigna dominante, arcigna presaga di sventura, strega infanticida. Quanto a Laca, l’innamorato sfregiatore ha qui i gesti oltre che le note del bravo ragazzo impulsivo e tutto cuore, che merita di concludere l’opera duettando con Jenůfa in una scena inondata da una pioggia d’oro. Mentre Carsen illumina di immensa speranza il finale, non c’è spazio per il dubbio: in ogni caso vincono la fede, il perdono, l’amore per l’umanità…
In questa Jenůfa al quadrato, dove la pietas per i casi individuali svetta sulla sovrastrutture che li determinano, il cast vocale appare a suo agio: Starenka Buryjovka (impersonata da Gabriella Sborgi), Kostelnička Buryjovka (Ángeles Blancas Gulín), Jenůfa (Andrea Danková), Laca Klemeň (Peter Berger), Števa Buryja (Martin Šrejma), Stárek (Italo Proferisce) e gli altri comprimari cantano e recitano adeguatamente. Nessuno ha una potenza tale da fronteggiare le accensioni più intense dell’orchestra, ma la condotta media è di buon livello, e gli applausi particolarmente insistiti per la Danková e la Gulín sono ben meritati, vista la ricchezza di nuances offerta in ruoli densissimi. Notevole anche la prova di Peter Berger, un Laca dalla vocalità elegante.
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