di Alberto Bosco foto © Xavier del Real
C’è forse chi pensa ancora che la Clemenza di Tito sia un’opera minore di Mozart, scritta in fretta e furia e di malavoglia, solo per venire incontro a una commissione imperiale che prevedeva uno spettacolo lontano ormai dal gusto del compositore. Più la si ascolta in teatro e più si deve riconoscere, invece, che Mozart non scrisse mai niente senza calarsi appieno nel compito che gli era richiesto, spesso trascendendo i limiti dell’assunto, come è per esempio il caso dei pezzi per organo meccanico che scrisse in quello stesso periodo. La Clemenza di Tito è certo un’opera seria, un genere antiquato, ma la musica di Mozart, grazie anche ad alcuni ammodernamenti approntati al libretto di Metastasio, riesce a delineare una drammaturgìa molto chiara ed efficace, con una sobrietà di mezzi espressivi e una sicurezza che tradiscono la mano del compositore maturo.
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Unica palla al piede ad ostacolare il dispiegarsi di questa serie di splendide arie e pezzi d’insieme, sono i recitativi secchi, che non furono scritti da Mozart. Ridurli al minimo sarebbe forse la scelta più ragionevole per dare a quest’opera la possibilità di rivelare tutte le sue ricchezze, mentre la produzione ormai storica (è del 1982) dei fratelli Ursel e Karl-Ernst Herrmann, ha scelto una strada più rischiosa, cercando di dare un senso drammatico a questi momenti vuoti, reinterpretando l’estetica dell’opera settecentesca.
Per esempio in molti passi i registi hanno trasformato l’opera quasi in un’opera buffa, una scelta che ha funzionato bene per i personaggi minori di Annio e Servilia (molto bello il loro duetto d’amore), e ha invece alterato la chiara distinzione che la musica di Mozart traccia tra i personaggi tragici e aulici di Vitellia, Sesto e Tito, e gli altri. Così per esempio l’aria di Vitellia all’inizio, trasformata in un ironico gioco di seduzione a tre, perde tutto il suo senso. Ecco, quella dell’ironia è un’altra carta giocata dalla regia per attualizzare lo spettacolo: da qui discendono i costumi stravaganti e certi simbolismi un po’ onirici e incomprensibili che costituiscono, insieme all’illuminazione algida e il bianco della scena, il marchio visivo di questa produzione. Facile capire come sia l’aspetto solenne e allegorico dell’opera, che pure la musica di Mozart accetta e sviluppa, a farne le spese. In compenso certi trapassi da recitativi e arie, certi dettagli effettivamente da opera buffa nella partitura, alcune pause e momenti di inquietudine sono stati messi in risalto dalla regìa, molto attenta ai dettagli della musica.
Sulla stessa lunghezza d’onda, la direzione d’orchestra di Christophe Rousset, condotta secondo quella che è ormai una prassi codificata tra gli specialisti del barocco: estreme variazioni di tempo, sforzati secchi, grande cura di dettagli minimi, una certa affettazione nel fraseggio, ecc. A differenza d’altri, Rousset ha però un istinto teatrale che gli permette di non perdere il senso generale dietro alle ricercatezze, così nonostante certi rallentamenti di tempo esangui ed eccessivi, l’altimetria drammatica disegnata dalla musica di Mozart è venuta fuori, con grandi momenti d’emozione, come nella prima aria di Sesto e nel Finale primo. Quanto ai cantanti, si sarebbe voluto qualcosa di più, e c’è da credere che la tiepida accoglienza del pubblico sia dovuta proprio a questo.
Karina Gauvin è stata una Vitellia dalla voce pallida ed è passata sopra all’immortale aria finale quasi con noncuranza; Monica Bacelli è di un’altra caratura interpretativa, ha appassionato nel primo atto, ma la sua intelligenza di interprete non riesce più di tanto a compensare una vocalità poco limpida e artefatta, tanto che il suo canto alla fine risulta stucchevole, l’esatto contrario di quell’effetto catartico che il canto all’italiana dovrebbe produrre; strepitosa la presenza scenica e la chiarezza di dizione di Jeremy Ovenden che è riuscito a dare consistenza a un personaggio che è poco più di un simbolo, peccato però che anche la sua voce non abbia quella naturalezza spiegata che ci vorrebbe in un’opera come questa (ciononostante, l’aria con le colorature del second’atto riuscì piuttosto bene). Più a posto vocalmente e meno “baroccheggianti” i tre personaggi minori, con una bravissima Sophie Harmsen nei panni di Annio, sicuramente la migliore in scena.
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