L’inaugurazione della stagione del Teatro Comunale reca una lettura impareggiabile dell’opera pucciniana, grazie alla compenetrazione d’intenti tra il concertatore Mariotti, il regista Vick e una schiera di cantanti assortita con eccezionale equilibrio
di Francesco Lora foto © Rocco Casaluci
LE STRONCATURE HANNO DUE VOLTE VITA FACILE: vengono di getto al critico e divertono parecchio il lettore. Gli spettacoli d’eccezione, al contrario, possono convertire ammirazione e commozione in senso d’inadeguatezza a recensire, o in un panegirico cui qualcuno potrebbe non credere. La stagione d’opera e danza del Teatro Comunale di Bologna si è inaugurata il 19 gennaio con La bohème di Giacomo Puccini; e fino all’ottava e ultima recita chi scrive si è trovato come instupidito, seguendo quasi ogni rappresentazione – estenuante la caccia al biglietto – e cercando di far tesoro massimo di quella lezione d’arte e vita. Si è trattato di uno spettacolo al di sopra d’ogni lode. Due sono le tesi di base al presente resoconto. La prima: La bohème è – statistiche dell’ultimo decennio – il quarto titolo d’opera più rappresentato al mondo; a Bologna è parso di ascoltarla, vederla e intenderla come se fosse la prima volta, ovvero la meglio mirata all’essenza di musica, poesia e teatro da almeno un ventennio in qua: d’ora in avanti, chi c’era vi tornerà con una messa a fuoco rinnovata. La seconda: nella Bohème di Bologna si è compiuto il raro miracolo di una fiera, totale, religiosa compenetrazione d’intenti tra concertatore, regista, cantanti e maestranze tutte; un obiettivo condiviso e chiaro, energie di ciascuno investite al massimo, nessuna vanitosa divagazione individuale. Tesi interconnesse. Da qui non si parlerà che di meriti, da estendere oltre colui che più è titolato a fregiarsene.
Non tutto è nuovo. Scene e costumi di Richard Hudson erano già stati concepiti tali e quali per l’Opera di Atene; ma in essi risulta rigenerata l’idea registica di Graham Vick. Finisce per pungere l’innocua trasposizione a una contemporaneità studentesca fatta di vestiti da mercatino e di mobilio da cassonetti: si riconosce la Bologna universitaria che orbita attorno al Teatro Comunale; eppure quell’iconografia coglie non il particolare ma l’universale: valeva identica già in Grecia. Codifica, in altre parole, aspetti del vero noti a ogni uomo che viva e gioisca, soffra e muoia. Tutto, nella lettura di Vick, è indagine della verità e via di catarsi: al cospetto del dramma si piange – molto – non in virtù di una sublimazione estetizzante, ma per prepotente confronto dello spettatore col proprio vissuto. Mai prima si è materializzata, meglio che qui, la vampa erotica che unisce Mimì e Rodolfo, mentre la pièce teatrale del poeta, finita presto in cenere, riprende a dar fiamma, luce e calore. Mai prima Benoît e Alcindoro sono stati tolti al destino di macchiette per divenire personaggi, anzi un’unica persona che va a riscuotere affitti e poi, camuffata, a spendere con l’amante. Mai prima è stato più amaramente restituito l’inselvatichimento dei giovani, fino all’istinto suicida o alla resa sociale tra droga e prostituzione. Non sono che esempi. Sino a un finale ove Mimì, sballata, muore sulla spalla di un Rodolfo che, schifato dalla morte, prima la rifiuta imbarazzato, poi la ritrova con complicità, infine la abbandona cadavere nel nido d’amore vuoto.
Chi gridi al travisamento dovrebbe sorprendersi di quanto puntualmente, al contrario, Vick realizzi o rinsensi didascalie neglette da una tradizione che equivale a pigrizia. Di certo egli non esce dal testo, alla cui viva realizzazione retorica e musicale presiede, dal podio, un Michele Mariotti di autorevolezza sgomentante. Bando immediato a quelle affettazioni e leziosaggini che, sormontate da inutili puntature e coronacce, si sono lungo un secolo costituite nel sistema dei puccinismi. Qui si studia, invece, da zero, in vista di chiarezza e semplicità: includendo la parola intonata in musica entro la naturalezza del vero conversare, senza calligrafismi; attuando l’idiomatica e vivida concomitanza di verso, melodia e gesto; fino a dimostrare la fragrante, giocosa, mai abbastanza creduta bellezza del libretto. Per schivare un costoso noleggio, l’edizione adottata è quella corrente; ma l’ascolto rivela la conoscenza di quella critica, vistosa nel ripristino della frase di flauto a lungo rimasta dimenticata nell’autografo e oggi restituita alla romanza di Rodolfo. La questione rimane peraltro di lana caprina al cospetto dell’imprevedibile, vertiginosa fluttuazione agogica con la quale Mariotti sospinge l’orchestra bolognese trasfigurata: lì si coglie – illuminante paradosso – come la capillare attuazione del testo scritto, e dunque l’innesco di ogni informazione lì presente, conduca l’opera ben oltre la sua codificazione su carta. Nel foyer si evocava con attonita insistenza Carlos Kleiber, né è sembrato che il nome divino fosse invocato invano.
Memorabile l’indugiante esplosione di primavera strumentale su «ma quando vien lo sgelo»; memorabile l’eco tristaniana, posta a nudo, nel luogo d’acme di «O soave fanciulla»; memorabile l’intero quadro III, che al virtuosismo descrittivo di atmosfera invernale vedeva preferite tinte livide e gesti violenti: la commedia si volge lì in tragedia. Al lavoro con tanto regista e tanto direttore, ecco cantanti col vanto di saper concretare ogni alta richiesta: artisti ancora freschi ma già adulti, capaci di far critica della giovinezza, pronti a consolidarsi in squadra. Sarebbe patetico sottoporre a vivisezione vociologica chi, al colmo delle proprie facoltà naturali e tecniche, e con un’immedesimazione scenica senza pari, ha contribuito alla meglio assortita tra le Bohème: Francesco Demuro, Rodolfo tormentato e squillante, in alternanza con Matteo Lippi, semplice e comunicativo; Nicola Alaimo e Sergio Vitale, Marcello l’uno più sanguigno e l’altro più scherzoso; Andrea Vincenzo Bonsignore, Schaunard caratterizzato al pari dei compagni; Evgeny Stavinsky, Colline forte di timbro esotico e porgere sottile; Bruno Lazzaretti, attore tale da sbaragliare ogni altro Benoît e Alcindoro passato per le scene; Mariangela Sicilia e Alessandra Marianelli, Mimì di sbalorditiva varietà coloristica e umorale opposta a un’altra più tradizionalmente timida, vittima, angelica; Hasmik Torosyan e Ruth Iniesta, Musetta declinata da capriccioso mannequin a modello di procace femminilità. Il miglior spettacolo del 2018 si è forse già celebrato?
Con il ritorno alla regia di Graham Vick al comunale di Bologna (dopo il Guillaume Tell del 2014) si apre la stagione operistica del teatro mai come quest’anno immerso in un contesto cittadino da brivido. Ma qualcuno ha perso la tramontana quando ha deciso di massacrare la bella piazza con dei containers da porto commerciale? Roba da fare rimpiangere il degrado umano del luogo. Come sempre è possibile che una mente deteriorata possa escogitare soluzione peggiori della situazione da sanare. E che la stessa mente sia – audite audite – nominato assessore alla cultura!!!! A quando il foyer del teatro sarà trasformato in un supermarket per spettatori in ritardo per la spesa? Qualcuno potrebbe spiegare quali sono le credenziali culturali del nuovo assessore? E’ terribile che gli assessori siano piazzati come al gioco delle tre carte, solo per “opportunità” politiche e mai per specifiche competenze in materia. I containers dovrebbero essere motivo sufficiente per squalificare il responsabile all’assessorato alla cultura. Evviva il Cencelli! E sorprendere talvolta il pubblico con un nome fuori dalla solita, insopportabile “politica” dotato di credenziali inattaccabili e magari disponibile all’incarico gratuitamente? In fondo Merola non ha neppure problemi di rielezione…. Never never land.
Ma veniamo all’opera. Diciamo subito che si tratta di una buona notizia (finalmente!). La regia di Wick ambienta la vicenda in un contesto moderno senza però nessun riferimento specifico (se si esclude l’inizio del terzo quadro con alcuni elementi di dubbio gusto, peraltro poco in risalto). L’ambiente è quello di quattro squattrinati artisti che vivono le loro ristrettezze in modo goliardico, pronti a far baldoria ad ogni occasione. Mimì non ha nulla della povera e sofferente fioraia ma ha un bel portamento (in pantaloni) supportato da una non comune prestanza fisica. E lo stesso dicasi di Musetta che il regista al termine dell’opera presenta insieme a Mimì un po’ come una ragazza di vita ma dotata di un grande cuore. Del tutto godibile la scena da Momus e molto bella la scena alla barriera la cui atmosfera tetra riflette perfettamente lo svolgimento dell’azione. Il finale vede Mimì vestita in minigonna rossa con lustrini, come reduce da un festino (che quindi allude a una sua vita sregolata) che però viene a morire nelle braccia di Rodolfo. (E qui andrebbe sottolineata l’imprecisione del recensore della Repubblica che afferma che Mimì muore sola. Non vero: muore fra le braccia di Rodolfo e solo dopo i quattro amiconi se ne vanno. La gattina frettolosa – di redazione – fa i gattini ciechi…) . Ma lo spettacolo funziona e come! e dopo tante ignobili regie “creative” si assiste a uno spettacolo che pur non rinunciando a innovazioni (evitando quindi i soliti comignoli di prammatica) mantiene il senso del testo e produce uno spaccato di vita quasi studentesca nella quale l’indigenza economica fa da contraltare alla vitalità della giovinezza. Una regia del tutto godibile che denuncia la mano di un regista “vero” e non di un qualche parvenu arrembante che per far notizia massacra le opere come purtroppo sempre più siamo costretti a sopportare. Quanto alla parte musicale si può solo applaudire l’intero cast a partire del direttore Mariotti che pur nel suo stile vigoroso trova gli accenti giusti nella parti più intimistiche trascinando l’orchestra in una delle sue migliori prestazioni degli ultimi tempi. Superlativa la prova di Mariangela Sicilia nella parte di Mimì: il finale del terzo atto è semplicemente da manuale. Un plauso incondizionato a una voce che eccelle sia nei toni drammatici che in quelli più lirici. Ottimo, anche se un gradino sotto, il Rodolfo di Francesco Demuro che talvolta sforza un poco e ottimo sotto ogni profilo (vocale e teatrale) il Marcello di Nicola Alaimo. Brava Hasmik Torosyan come Musetta, spiritosa e brillante come la parte richiede. E buona anche la prestazione di Evgeny Stavinsky come Colline anche se ovviamente confinata alla famosa e non facile aria della zimarra. Nella norma tutti gli altri interpreti. In sintesi finalmente un spettacolo degno di un’inaugurazione di stagione e – speriamo – indicativo di una nuova aria nel teatro, dopo il cambio per troppo tempo procrastinato di un sovrintendente solo da dimenticare.