di Francesco Fusaro foto © Karlheinz Stockhausen in the Electronic Music Studio of the WDR, 1994
In un periodo storico nel quale un’alta carica dello Stato è impegnata a mandare bacioni virtuali a tutti, forse chiedere ai politici che cosa significhi per loro l’amore non è una domanda poi così peregrina. Il produttore elettronico Darren J Cunningham, in arte Actress, ha posto la questione al centro della sua nuova composizione Actress x Stockhausen Sin {x} II, con la quale il prestigioso Southbank Centre di Londra ha inaugurato la rassegna di concerti e workshop intitolata Stockhausen: Cosmic Prophet.
La musica del compositore tedesco scomparso nel 2007 occupa sicuramente un posto speciale nelle discoteche personali di molti musicisti provenienti dall’area sperimentale della musica non accademica. Partendo dalla Scena Prima di Mittwoch aus Licht, Welt-Parlament, nella quale un consesso di politici si esprimono sull’annosa questione di che cosa sia l’amore, il musicista britannico Actress ha dunque portato il linguaggio della musica elettronica di consumo, della retorica politica post-Brexit (il testo inglese è basato su una sessione della camera dei Lord avvenuta di recente proprio sul tema amoroso) e dell’intelligenza artificiale entro i confini dell’opera di Stockhausen, con risultati purtroppo non convincenti.
L’impressione che serpeggiava fra il pubblico (il quale non ha esitato a lasciare a frotte la sala durante la performance) era infatti quella di una composizione non finita, concepita senza un chiaro messaggio musicale ed eseguita con un certo timore, non si sa se reverenziale (al pianoforte sedeva infatti Vanessa Benelli Mosell, allieva di Stockhausen) o meno. Non che mancassero le idee: anzi, proprio il loro affastellamento disordinato e incongruo non aiutava il pubblico a collocare i ruoli che palette elettronica, coro di voci recitanti, pianoforte e intelligenza artificiale – rappresentata su schermo dall’alter ego virtuale di Actress, Young Paint – dovevano interpretare nel contesto generale dell’opera, soprattutto in relazione al materiale originale di Karlheinz Stockhausen.
Non che ci si aspettasse ovviamente di uscire dalla sala con un’idea più chiara su che sia, alla fine dei conti, questa cosa che chiamiamo amore. Ma una proposta convincente su come sia possibile ri-contestuallizare l’opera di Stockhausen entro le coordinate culturali e politiche nelle quale ci troviamo noi oggi, quello sì sarebbe stato legittimo richiedere dopo settantacinque minuti di umanissima pazienza.